Proponiamo la recensione al testo di Michael N. Forster, After Herder. Philosophy of Language in German Tradition, scritta da Attilio Bragantini e apparsa nell’ultimo numero di Universa. Recensioni di filosofia. Il testo in PDF della recensione può essere scaricato al seguente link.
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Michael N. Forster, After Herder. Philosophy of Language in the German Tradition, Oxford University Press, 2012, pp. 482, £ 28.00, ISBN 9780199659388
Il volume rappresenta la seconda edizione di un’opera apparsa nel 2010, e costituisce al contempo la prima parte di un lavoro che si completa con il tomo German Philosophy of Language from Schlegel to Hegel and Beyond, dato alle stampe nel 2011. Forster ci propone uno studio di storia delle idee il cui fulcro è il tentativo di rimettere nella giusta luce l’influenza del pensiero di Herder sui successivi sviluppi della filosofia tedesca, a partire dalla sua riflessione sul linguaggio.
Il libro è composto da una raccolta di saggi, per metà inediti, ed è suddiviso in tre parti, di ampiezza diseguale, rispettivamente dedicate a Herder, Hamann e Schleiermacher. Tuttavia, come già accennato, è il pensiero del primo ad orientare la ricerca; è la sua eredità il prisma attraverso cui considerare i diversi momenti dell’opera.
Il piano d’attacco della raccolta si basa dunque su tale lascito. Nell’Introduzione l’Autore dichiara infatti che se per linguistic turn intendiamo l’affermazione di due fondamentali principi, ovvero “che il pensiero è essenzialmente dipendente e legato al linguaggio e che il significato consiste nell’uso delle parole, allora […] ben prima di Frege una serie di importanti pensatori tedeschi, inclusi Herder, Hamann, Schleiermacher, F. Schlegel, W. von Humboldt e Hegel avevano già esposto delle versioni di queste dottrine.” (p.1) Tra di essi, un ruolo fondativo è giocato da Herder, per quanto attiene non solo alla filosofia del linguaggio in senso stretto, ma anche alla nascita di altri saperi che caratterizzano il pensiero contemporaneo. Tre appaiono le rivoluzioni operate da Herder. La prima, quella linguistica, contempla, oltre all’affermazione dei due principi sopraccennati, una considerazione semi-empirista del significato come dipendente da sensazioni (percezioni, emozioni). La seconda, in campo ermeneutico, fa leva a sua volta su tre assunti, correlati con quelli della rivoluzione linguistica: accettare lo scarto costitutivo tra quanto un autore ha pensato e quanto ha effettivamente espresso nello scritto che interpretiamo; individuare lo schema degli usi verbali di un autore per rintracciarne il significato; ricorrere infine all’immaginazione per ricostruire quanto della sensibilità di un autore ha un peso semantico nei suoi testi. La terza rivoluzione di Herder, nella teoria della traduzione, consiste nell’aver avanzato per primo la tesi dell’estraniamento (foreignization) contro l’addomesticamento (domestication), ovvero una fedeltà alla lingua di partenza che conduce, da un lato, a piegare ai fini della sua resa la lingua d’arrivo, dall’altro, ad imitare, in quest’ultima, la musicalità e le sfumature della prima. “La rivoluzione nella filosofia del linguaggio – nota Forster – comunemente attribuita a Hamann, quelle nell’ermeneutica e nella teoria della traduzione a Schleiermacher. Io ritengo, al contrario, che queste rivoluzioni siano intimamente interconnesse […] e che esse siano dovute principalmente ad un solo contributo, […] quello di Herder” (p.3). A quest’ultimo l’Autore accorda anche un ruolo decisivo nella nascita dell’antropologia culturale e della linguistica.
È a partire da questi assunti introduttivi che è possibile leggere i dodici saggi della raccolta come declinazioni di più vasto espiro e maggior profondità delle tesi in essi già enucleate. Metà dell’opera è costituita dalla sua prima parte, dunque, direttamente, da una disamina della filosofia di Herder. Il primo saggio offre una panoramica generale sull’opera del filosofo. Il secondo articolo ripercorre la rivoluzione linguistica di Herder. L’Autore si propone di dimostrare come già a metà negli anni Sessanta, con Sulla diligenza dello studio delle lingue (1764) e Frammenti sulla più recente letteratura tedesca (1767-68), Herder avesse concepito i punti fondamentali della sua filosofia del linguaggio, mentre la maggior esposizione in tale campo di Hamann, la Metacritica del purismo della ragione pura, è soltanto del 1784, ed apparirebbe teoricamente meno convincente.
Partendo da tali indagini sul linguaggio, il terzo contributo si focalizza su alcuni casi-limite che potevano costituire valide obiezioni alle tre tesi herderiane: Dio, gli animali e le arti non verbali. Se Dio ha un pensiero senza linguaggio, viene meno la loro co-dipendenza? Secondo l’Autore Herder, assumendo negli anni Ottanta una forma di monismo à la Spinoza che implica che anche per Dio pensiero e corpo (e quindi l’articolazione linguistica) siano attributi della stessa sostanza, avrebbe di fatto eliminato tale eccezione. Speculare è il caso degli animali. Se, come Süßmilch, Herder è disposto a concedere loro una sorta di attività mentale e l’uso di segni, come Reimarus nega loro il pensiero concettuale e di conseguenza il linguaggio: soltanto quest’ultimo permette quella trasformazione delle facoltà mentali che dà luogo al pensiero propriamente inteso. Un ulteriore interrogativo è quello posto dalle arti non verbali. L’Autore elucida la posizione di Herder distinguendo tra “espressivismo ristretto” (il pensiero può essere espresso solo tramite il linguaggio) e “espressivismo allargato” (il pensiero può essere espresso anche tramite media non linguistici o simbolici come le arti non verbali). In base a questa distinzione quella di Herder apparirebbe una peculiare forma di espressivismo ristretto: le arti non verbali dipendono dal linguaggio in quanto sono espressioni di pensiero (che è legato ad esso) e allo stesso tempo tale pensiero è da presupporre per poter fruire di queste forme artistiche.
Il quarto testo ripropone nei termini già esposti l’importanza filosofica di Herder nei tre ambiti della filosofia del linguaggio, delle teorie dell’interpretazione e della traduzione. Per quanto riguarda il primo campo in particolare, viene sottolineata l’influenza di Herder su L. Wittgenstein grazie alla mediazione di F. Mauthner. Il quinto intervento affronta un problema specifico, quello della teoria dei generi, evidenziando l’impulso dato da Herder in questa direzione: il genere è per lui una classe di opere (verbali o meno) costituita non solo da certe regole di composizione ma anche da scopi specifici. Contro l’ipotesi dell’esistenza di una serie limitata e predeterminata di generi, Herder considera la loro variabilità in epoche e luoghi differenti, come nel medesimo contesto culturale. Per l’Autore mantenere ciononostante l’esistenza dei generi permette di concepire l’ampio spettro della produttività letteraria e artistica, che non si riduce ad un fatto individuale, sganciato da ogni radicamento storico-culturale, anche laddove lo contesti.
Il sesto capitolo affronta il contributo offerto da Herder alla nascita dell’antropologia. Basandosi sull’importante libro di J. Zammito Kant, Herder and the Birth of Anthropology (2002), in cui viene riconosciuto ad Herder un ruolo fondamentale nell’apertura del sapere antropologico tedesco del XVIII secolo, l’Autore si orienta, più nello specifico, a mostrare il debito della moderna antropologia culturale in ambito anglosassone nei confronti di Herder, sia nella sua variante americana, grazie all’opera di F. Boas, studioso di origine tedesca, che in quella britannica, a partire dal lavoro dell’antropologo di origine polacca B. Malinowski.
La settima e ultima sezione della prima parte si propone di mostrare come la riflessione politica sviluppatasi in seno alla filosofia classica tedesca abbia contribuito in misura ragguardevole alla formazione del pensiero liberale. In particolare l’Autore cerca di mostrare come le idee di individualità e libertà di pensiero ed espressione propugnate da J. S. Mill, in specie in On Liberty, e che talora egli stesso riferì a filosofi tedeschi come W. von Humboldt, fossero già state pensate, per certi versi con più profondità dell’intellettuale inglese, da Herder e dalla tradizione filosofica che n’è seguita.
La seconda parte, che ha per oggetto Hamann, è la più breve della silloge, componendosi di soli due saggi. Dopo una presentazione generale del pensiero di Hamann, nel nono contributo si riafferma, con argomenti e riferimenti bibliografici in gran parte già forniti nella prima parte dell’opera, la priorità non solo cronologica ma anche teorica di Herder rispetto all’amico nei campi della filosofia del linguaggio, dell’ermeneutica e della teoria della traduzione.
Più complessa appare l’analisi del pensiero di Schleiermacher, cui è dedicata la terza e ultima parte del volume. Dopo la consueta apertura con un inquadramento generale del filosofo affrontato, nell’undicesimo capitolo della raccolta l’Autore affronta l’ermeneutica. Egli mostra come essa venga fondata da Schleiermacher su una concezione del linguaggio fedele a quella herderiana, benché talora egli si spinga oltre, con incerti risultati (p.es. non solo legando, ma identificando pensiero e linguaggio). Interessanti appaiono invece il tentativo di ricorrere a schemi (empirici) à la Kant per spiegare il significato e l’idea che la parola raccolga in unità la molteplicità dei significati, che finiscono con l’influenzarsi l’uno con l’altro: “un finissimo criterio di identità del significato” (p.367). Successivamente, l’Autore sottolinea la fecondità dell’approccio empirista di Schleiermacher allo scarto, nella comprensione, tra interprete e testo, in quanto si volge a considerare la distanza storico-culturale e le innovazioni proprie di ciascun autore (temi già trattati da Herder) nella concretezza dell’attività interpretativa. Ne deriva che la distinzione che Schleiermacher opera tra un lato linguistico (o grammaticale) e uno psicologico (o tecnico) dell’interpretazione non va vista come un’alternativa, ma come un insieme di aspetti di cui tenere conto nella comprensione. In tal senso secondo Forster il cosiddetto metodo interpretativo “divinatorio” di Schleiermacher non implica un’immedesimazione nell’autore (come vorrebbe Dilthey), ma piuttosto una strategia congetturale sulla base delle evidenze fornite dal testo, che non si oppone dunque al metodo “comparativo”, ovvero induttivo, ma lo integra. Per questo, l’Autore vede una certa vicinanza della teoria dell’interpretazione in Schleiermacher con il metodo delle scienze naturali (in quanto esse stesse non operano con procedimento meramente induttivo, ma, secondo un’epistemologia aggiornata, attraverso ipotesi, congetture, ecc.). La dodicesima e ultima sezione dell’opera discute infine la nascita della traduzione per estraniamento. L’Autore, come già preannunciato nell’Introduzione, ritiene che tale genesi sia riconducibile a Herder, sia nella teoria che nella pratica di traduzione. In particolare, egli ritiene che il saggio fondamentale di Schleiermacher a tal proposito, Sui diversi modi del tradurre (1813), “debba le sue tesi principali sulla traduzione [ovvero: piegare la lingua d’arrivo a quella di partenza, imitare la musicalità della lingua di partenza, NdR] ai precedenti Frammenti sulla più recente letteratura tedesca (1767-69) di Herder” (p.392). Le ragioni di tale comunanza, nonostante alcune differenze, sono rintracciate nella fedeltà al compito di approssimarsi il più possibile al significato originario del testo, ma anche in una cosmopolitica attenzione per le lingue degli altri popoli.
I saggi che compongono il volume sono pregevolmente chiari nell’esporre le tesi interpretative che li animano, i riferimenti testuali circostanziati, i ragionamenti espliciti. Certamente, l’obiettivo generale di mettere in giusta luce l’influenza chiave di Herder sui filosofi tedeschi posteriori non può che mette re in ombra quanto del loro pensiero rifugga a tale genealogia.
Attilio Bragantini, Università degli Studi di Padova
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