Proponiamo la recensione del testo di Axel Honneth, Il diritto della libertà. Lineamenti per un’eticità democratica, scritta da Eleonora Cugini e apparsa sull’ultimo numero di Universa. Recensioni filosofia (Anno 5, Vol. 2 – 2016). Il testo PDF della recensione è disponibile qui.
Axel Honneth, Il diritto della libertà. Lineamenti per un’eticità democratica, Codice Edizioni, 2015, pp. 528, € 35,00, ISBN 9788875785178
Eleonora Cugini, Università degli Studi di Padova
In questo lavoro Axel Honneth si propone di “elaborare una teoria della giustizia come analisi della società” (p.XXXVI).
Un simile obiettivo nasce dall’insoddisfazione che, secondo l’Autore, all’interno del dibattito filosofico sulla giustizia, segna tanto le posizioni costruttiviste – di derivazione kantiana – che formulano regole da applicare solo esteriormente alla realtà, quanto le posizioni di quell’idealismo che si è sviluppato in seguito alla morte di Hegel, attorno a un’interpretazione conservatrice della sua Filosofia del diritto e che si limitano a una mera descrizione della realtà, rintracciandovi connotazioni di razionalità e necessità che rendono impossibile qualsiasi critica.
L’elaborazione di una teoria della giustizia, a partire da presupposti strutturali della società, viene condotta da Honneth con un metodo che egli definisce “ricostruzione normativa” (p.XL) e per il quale fa diretto riferimento proprio all’hegeliana Filosofia del diritto. Questo metodo consiste in una ricostruzione, in quanto mediante l’osservazione e l’analisi della società seleziona solo quelle istituzioni e quei valori etici che garantiscono la riproduzione sociale; inoltre tale ricostruzione è normativa perché ordina le istituzioni scelte in base alla loro importanza e al loro ruolo nell’applicazione e nella stabilizzazione di quei valori etici socialmente accettati e legittimati. I principi normativi che orientano tale teoria della giustizia, secondo Honneth – che ritiene così di recuperare l’esposizione e il metodo offerti da Hegel nella sfera dell’eticità della Filosofia del diritto –, vengono elaborati all’interno della società stessa e sollecitano quest’ultima a una loro sempre più completa realizzazione.
Il metodo della ricostruzione normativa esibisce così anche l’opportunità di una sua applicazione critica, ma pur sempre di critica immanente, o “ricostruttiva”, che non contrappone criteri esterni alle pratiche esistenti: “se cioè, funge da istanza di eticità ciò che rappresenta valori o ideali mediante un insieme di pratiche istituzionalizzate, allora quegli stessi valori possono anche essere richiamati per criticare le pratiche esistenti in quanto non ancora adeguate sotto il profilo delle loro prestazioni rappresentative” (p.XLIV).
È a partire da questa impostazione del problema che Honneth può dichiarare cosa egli intenda per giustizia: “la libertà nel senso dell’autonomia dell’individuo” (p.5) si può comprendere solo se viene pensata primariamente come una libertà sociale, ovvero all’interno di istituzioni concrete di reciproco riconoscimento e scambio per la realizzazione di esigenze vitali. Lo sforzo di Honneth sta dunque proprio nel ribaltare l’identificazione, avvenuta storicamente, della libertà con la mera giustizia delle leggi e del diritto, e ricondurre questo rapporto all’identificazione della giustizia con la libertà sociale del mutuo riconoscimento, della solidarietà e della cooperazione tanto nella sfera privata quanto in quella economica e politica.
Al centro di tutta la ricca e articolata argomentazione di questo libro possiamo individuare tre nuclei che si sostengono reciprocamente: 1) l’indagine attorno alla giustizia è un’indagine attorno alla libertà, ma 2) tale indagine deve essere condotta secondo un metodo che, da un lato, non si riduca tutto all’esteriorità del diritto e, dall’altro, non si ritrovi nell’impasse di legittimare sic et simpliciter lo stato di fatto, anzi, 3) un tale metodo dovrà fornire anche i criteri per una “critica ricostruttiva”. Questi tre nuclei sono retti e tenuti assieme da una tesi centrale: la libertà individuale è sostenuta, resa possibile ed effettivamente reale solo nella libertà sociale.
Il volume di Honneth, ricalcando la tripartizione della Filosofia del diritto, nella sua prima parte articola una ricostruzione storico-concettuale della libertà in negativa, riflessiva e sociale. La seconda parte, che si intitola La possibilità della libertà, è dedicata alle applicazioni dei primi due modelli nella libertà giuridica e nella libertà morale. Il terzo modello della libertà sociale si trova nella terza e conclusiva parte del libro intitolata La realtà della libertà, in cui si trova una verifica storicoempirica dei concetti di libertà elaborati, e si articola in tre sezioni dedicate alle relazioni personali, alle relazioni economiche e alle relazioni politiche.
La libertà negativa è il primo modello, nonché il primo “stadio”, di elaborazione della libertà che si definisce con Hobbes come “assenza di resistenze esterne” (p.13): in ciò si trova tanto la sua negatività – in quanto fa dipendere la libertà da una “decisione priva di impedimenti” – quanto la sua “rivendicazione di una peculiarità individuale” (p.18). L’espressione politica di questo concetto di libertà è il contrattualismo, il quale prevede un’autolimitazione dell’individuo nel diritto di perseguire illimitatamente i propri scopi, quando ciò dovesse ledere lo stesso e corrispondente diritto di un altro.
La libertà negativa si riferisce dunque solo all’individuo isolato, “atomizzato”, in cui non è posta in questione la sua capacità di autodeterminarsi in quanto la causalità della sua volontà è vista solo in una sorta di difesa rispetto all’esterno.
Sorge così nella modernità il concetto di libertà riflessiva che “poggia soltanto sull’autorelazione del soggetto; in base a essa, è libero l’individuo che riesce a relazionarsi con se stesso in modo tale da farsi guidare, nel proprio agire, soltanto dalla propria volontà” (pp.25-26). Il riferimento è all’imperativo categorico kantiano dell’autolegislazione o autodeterminazione (da cui derivano le interpretazioni di Apel e Habermas). Questa concezione della libertà non può prescindere dai partner dell’interazione sociale perché, fondandosi sulla razionalità e sulla universalizzabilità, trae il suo senso solo dall’idea che ogni soggetto è un fine in sé (pp.30-31) e dalla giustificabilità morale (razionale e universale) delle massime soggettive. Il limite di questa concezione della libertà e della relativa concezione della giustizia, secondo Honneth, sta nella sua proceduralità: “essa si limita a fissare normativamente le procedure della formazione collettiva della volontà” (p.37) e non prende in considerazione “le condizioni sociali che consentirebbero l’esercizio della libertà a cui si aspira” (p.42).
È quest’ultima considerazione che conduce l’argomentazione alla terza sfera della libertà sociale, che non è un’alternativa alla libertà riflessiva, bensì ne costituisce l’estensione o addirittura il fondamento (come la libertà riflessiva lo è per la libertà negativa). Nella libertà sociale le condizioni istituzionali, cioè le dimensioni concrete di libertà in cui avviene un mutuo riconoscimento e uno stabile soddisfacimento di esigenze vitali, non sono delle aggiunte esteriori al concetto di libertà ma “un elemento della stessa realizzazione della libertà” (p.45).
A questo punto Honneth fa riferimento a Hegel e alla sua categoria del “riconoscimento reciproco”, espresso nella formula “essere presso di sé nell’altro”, che non solo propone un allargamento della libertà riflessiva in una libertà intersoggettiva, ma di quest’ultima, a sua volta, in una libertà sociale. La tesi di Honneth è che con la teoria hegeliana del riconoscimento “verrebbe caratterizzata la struttura di una conciliazione non soltanto tra soggetti ma tra libertà soggettiva e libertà oggettiva” (p.53). Il procedimento che permette questa conciliazione è offerto da Hegel nell’eticità della Filosofia del diritto. Qui Honneth riconosce a Hegel l’utilizzo del metodo della ricostruzione normativa, in quanto fornisce una teoria della libertà sociale, secondo cui è necessario che vi sia prima un ordine sociale “giusto”, cioè legittimato socialmente nella realtà, perché i singoli soggetti possano essere pensati come liberi. Questa anteriorità del momento sociale è però da intendersi come un’interrelazione e un reciproco riconoscimento, ovvero: nella libertà sociale non scompare la libertà riflessiva. Dunque, in questo senso, le istituzioni non vanno considerate organi atti a reprimere la libertà ma a favorirla: laddove si verifichi il primo dei due casi appena ipotizzati si cade in quelle che Honneth chiama patologie sociali.
Nella seconda parte (La possibilità della libertà), Honneth mostra i limiti e le patologie sociali dell’applicazione dei primi due concetti di libertà ricostruiti – la libertà negativa e la libertà riflessiva – nella libertà giuridica e nella libertà morale.
La libertà giuridica garantisce solo una libertà negativa perché permette una “realizzazione puramente privata della volontà” (p.87) e in ciò sta il suo stesso limite in quanto, per poter diventare effettuale, necessita di istituzioni intersoggettive o “comunicative” che essa stessa esclude con la sua concezione privatistica dell’individuo, il quale, anzi, corre il rischio di ritirarsi dalla rete delle relazioni sociali esistenti. Quando tale rischio si verifica dà luogo a due forme di patologie sociali: il soggetto a) si concepisce come il mero involucro della “persona giuridica” (pp.110-115) oppure b) come una personalità solo conforme al diritto (pp.115-118). In ultima analisi, la libertà giuridica ha la caratteristica di rendere solo possibile la libertà, ma non di realizzarla.
La libertà morale “non ha il carattere di un principio vincolante sanzionato dallo Stato, sicché ha finito per assumere solo la forma debolmente istituzionalizzata di un modello di orientamento culturale” (p.120). Tuttavia Honneth riconosce che questa libertà determina rapporti di reciproco riconoscimento, ma, proprio come la libertà giuridica, resta confinata nel regno della possibilità senza realizzazione. Infatti, sebbene la libertà morale sia indispensabile all’interno della libertà sociale, perché permette una verifica soggettiva delle pratiche istituzionalizzate mediante un criterio razionale e universalizzabile, tuttavia, se presa per se stessa, le resta solo il lato “autoesonerante” e conduce alle due patologie sociali del moralismo e del terrorismo.
Nell’ultima parte dedicata alla realtà della libertà, Honneth propone una diagnosi storica utilizzando il metodo della ricostruzione normativa, per fornire delle verifiche empiriche dello sviluppo del concetto di libertà sociale.
Il punto di partenza è la sfera dei rapporti privati, dall’amicizia all’amore tra i coniugi fino alla famiglia, per mostrare come, soprattutto in quest’ultima sfera, siano avvenute le realizzazioni più soddisfacenti dei principi normativi della solidarietà e della cooperazione, in seguito a numerose lotte per il riconoscimento volte a rendere i ruoli familiari sempre meno rigidi (p.233).
Nella seconda sfera dei rapporti economici, Honneth non manifesta lo stesso ottimismo, anzi, qui mostra proprio come oggi, in seguito a numerose lotte per il riconoscimento, si sta assistendo a un’involuzione della dimensione sociale e cooperativa verso l’individualismo, lo sfruttamento crescente e un’assenza sempre maggiore di tutele giuridiche (p.356).
Nella terza sfera vengono poi indagati i rapporti politici dello Stato democratico. L’analisi di Honneth si concentra soprattutto sul ruolo svolto dai media nella formazione della “volontà pubblica”, il cui potenziale critico e “comunicativo” si è spento del tutto nella spettacolarizzazione e nella manipolazione della realtà a fini puramente economici. Honneth riconosce con cautela che forse internet per questo può rappresentare un’alternativa ai media tradizionali (pp.430-434).
Ciò che in ultima analisi emerge da questa involuzione nello sviluppo sociale della volontà pubblica è la sfiducia e la disaffezione dei cittadini nei confronti delle decisioni politiche, che vengono considerate come orientate a garantire gli interessi di potenti lobby economiche (p.468).
Honneth riconosce una via d’uscita a questa condizione nelle associazioni civili che operano a livello transnazionale e che esercitano una pressione sui governi al fine di “ridare al mercato capitalistico un ruolo sociale” (p.469).
Il Diritto della libertà offre una rara chiarezza nell’esposizione di tesi complesse e una valida argomentazione per i difficili obiettivi che Honneth si è posto di raggiungere. Il metodo della ricostruzione normativa risulta convincente e, sebbene proceda mediante scelte ed esclusioni dall’infinito materiale offerto a una diagnosi empirica, esse non si possono certo dire arbitrarie. L’elemento di problematicità dell’impostazione honnethiana risulta essere una qualche debolezza teoretica che rischia di far cedere l’impianto più “critico” della ricostruzione normativa per concentrarsi maggiormente su quello della “ricostruzione”.
Si potrebbe forse dire che il lettore, alla fine del libro, potrebbe provare un po’ di insoddisfazione, perché tutta la ricognizione offerta, che termina con l’auspicio di un pacifico equilibrio e una vitale reciprocità tra le tre sfere di libertà, allo stesso tempo mostra anche un forte disincanto rispetto al potenziale normativo della libertà sociale, a causa del dominante individualismo contemporaneo. Riteniamo che questa insoddisfazione riguardi l’aspetto più “critico” e “normativo” della “ricostruzione normativa”, che farebbe pensare a una conclusione totalmente diversa rispetto a quella proposta da Honneth, ovvero che proprio nei momenti di interruzione o involuzione nella realizzazione di istituzioni comunicative sorgono nuovi principi normativi per un ulteriore sviluppo del processo della libertà sociale.