Proponiamo la recensione del testo di Rüdiger Voigt, Denken in Widersprüchen. Carl Schmitt wider den Zeitgeist, scritta da Luca Lattanzi e apparsa sull’ultimo numero di Universa. Recensioni filosofia (Anno 5, Vol. 2 – 2016). Il testo PDF della recensione è disponibile qui.
Rüdiger Voigt, Denken in Widersprüchen. Carl Schmitt wider den Zeitgeist, Nomos, 2015, pp. 330, € 59, ISBN 9783848718757
Luca Lattanzi, Università degli Studi di Padova
In questo volume Rüdiger Voigt presenta tredici saggi sui principali temi del pensiero di Carl Schmitt. Già pubblicati nel corso degli ultimi quindici anni in collettanee o monografie, in questa occasione tali contributi sono stati ampliati e rivisti. Il filo conduttore risiede nel tratto caratteristico che l’A. individua nel pensiero politico di Carl Schmitt, ovvero quell’indole contradditoria, contingente, vitale, anti-progressiva e anti-universalista che qualifica sia l’uomo sia la sua opera. Un pensiero, dunque, che non intende collocarsi all’altezza del proprio tempo, presupponendo con ciò uno sviluppo storico progressivo, bensì contro lo spirito del tempo. Ciò che interessa Schmitt non è quindi formulare una teoria politica o giuridica universalmente valida, bensì mostrare la conflittualità e polemicità immanente in ogni categoria storico-politica. Partendo da questa visione d’insieme, l’A. ritiene dunque possibile nonché legittimo servirsi dell’apparato critico schmittiano al fine di analizzare i problemi di ordine politico e giuridico attuali.
I saggi sono suddivisi in sei sezioni tematiche differenti. Nella prima, dal titolo “fondamenti” (Grundlagen), trovano spazio tre contributi. Nel primo si sottolinea come la funzione affatto peculiare che Schmitt assegna alla formazione dei concetti sia influenzata da interessi estetici presenti fin dai primi anni della sua formazione. Il dar forma tramite concetti (Formgebung durch Begriffsbildung) significa infatti svolgere un compito prettamente rappresentativo nei confronti di una “materia storica” che non si lascia mai cogliere nella sua interezza. I concetti per Schmitt non possono avere dunque che un senso propriamente polemico, rivolto sempre contro una rappresentazione storico-politica opposta e contraria. Il secondo saggio, prendendo in esame il testo schmittiano Der Begriff des Politischen, rileva come la distinzione amico-nemico rappresenti, per il giurista di Plettenberg, il presupposto fondamentale per la definizione di uno spazio politico. Volgendo lo sguardo al presente, l’A. mostra come nel corso del ventunesimo secolo, nel contesto dell’occidente democratico e cosmopolitico, la tesi schmittiana sul politico sia stata superata in favore di un semplice agonismo tra contraenti che ha tuttavia lasciato aperto il problema della legittimità dei conflitti e dello statuto giuridico dei nemici. La “guerra al terrore” ha infatti desunto la propria legittimità sulla base di una discriminazione morale del nemico. Tale discriminazione morale, tuttavia, non ha fatto altro che acuire il grado di violenza del conflitto. La prigione di Guantánamo (Campo Delta), dove i prigionieri non sono classificati come prigionieri di guerra né come imputati di reati ordinari, mostra infatti come in mancanza di una chiara distinzione tra amici e nemici venga meno l’essenza stessa dello stato di diritto. Il terzo saggio individua quale primario obbiettivo della dottrina costituzionale schmittiana quello di indicare le condizioni affinché possa esprimersi una piena sovranità popolare. La sovranità risiede nel popolo solo se la costituzione viene intesa come forma dell’unità politica e sociale dello Stato e non come Grundnorm, ovvero come diretta espressione di una decisione esistenziale che un popolo assume in quanto intestatario del potere costituente. L’A. rintraccia dunque due contesti nei quali la dottrina della costituzione schmittiana mostra ancora la sua pregnanza: il campo dell’Europa e la problematica della sicurezza individuale. Sul primo versante, seguendo il ragionamento di Schmitt, il fallimento del progetto di una costituzione europea è da imputarsi alla mancanza di un popolo europeo caratterizzato da un’omogeneità culturale nonché politica, sul secondo versante, la lotta al terrorismo pone gli Stati nella condizione di dover decidere tra la libertà e la sicurezza dei cittadini, decisione che risulta possibile solo derogando al principio liberale della primarietà del diritto individuale sulla ragion di Stato.
Nella seconda sezione tematica trovano luogo due saggi. Nel primo l’A. analizza il testo schmittiano del 1932 Legalität und Legitimität cogliendo quale elemento saliente la sostanzialità che il giurista di Plettenberg riconosce alla legittimità. Il bersaglio polemico è ancora una volta il giusformalismo kelseniano che vorrebbe invece assegnare alla legalità una propria legittimità interna. La fonte della legalità risiede, infatti, per Schmitt nella decisione sovrana sullo stato d’eccezione. L’A. passa dunque a dimostrare come la critica schmittiana al legalismo illumini alcuni problemi attuali. Le democrazie occidentali soffrono infatti di un evidente deficit di legittimità. Da un lato, il principio rappresentativo, che dovrebbe garantire la sovranità del popolo, si perde nella nomina di delegati che agiscono in nome di interessi particolari, dall’altro, per far fronte alla crisi economica e al pericolo del terrorismo, decisioni politiche fondamentali per l’esistenza dei popoli vengono prese dal potere esecutivo e non da quello legislativo e sempre più in un contesto sovranazionale e non nazionale. Il secondo contributo analizza il saggio schmittiano Die legale Weltrevolution del 1978, nel quale si descrive il passaggio dalla legalità alla super-legalità (Superlegalität). Con il termine super-legalità si intende la valenza superiore che, all’interno di una costituzione, assumono alcune norme rispetto alle altre. Schmitt fa l’esempio delle norme procedurali, che hanno il compito di contrastare la modifica o la soppressione di altre norme. Il giurista di Plettenberg rileva però come nell’assetto globale venutosi a creare a seguito della seconda guerra mondiale, le superpotenze (Schmitt ne individua tre: Usa, Urss e Cina) impongano agli Stati di loro influenza, attraverso vettori ideologici, una funzione specifica che deve essere svolta mediante “norme fondamentali” in base a una precisa idea di progresso. L’A. rileva dunque come l’analisi schmittiana sulla super-legalità individui un ulteriore elemento che impedisce all’Europa di definirsi come spazio politico autonomo.
La terza sezione si compone di due saggi. Nel primo si riscontra come Schmitt concordi con Macchiavelli nel ritenere pensabile una ragion di Stato solo riconoscendo nel principe una volontà incondizionata al potere. L’A. nota dunque come nelle moderne democrazie il concetto di ragion di Stato è entrato in crisi poiché è sorta l’esigenza di una trasparenza assoluta del potere. Se anche lo Stato, le sue istituzioni e i suoi organi sono infatti fondati dalla legge, ciò impedisce di per sé il darsi di una ragion di Stato. Tuttavia, con la guerra al terrorismo è riemersa la necessità di una ragion di Stato, ovvero di un esercizio del potere che travalichi la distinzione di legale ed illegale. Il secondo contributo ribadisce innanzitutto la centralità che il concetto di “stato d’eccezione” (Ausnahmezustand) riveste all’interno della dottrina schmittiana dello Stato. Lo stato d’eccezione definisce quel momento di crisi in cui l’esistenza dello Stato è minacciata da pericoli interni o esterni allo Stato stesso. La decisione sovrana e pre-legale sullo stato d’eccezione oltre che rappresentare l’essenza della sovranità statale, per Schmitt, indica la fonte di legittimità delle norme. L’A. mostra dunque come ancora una volta la crisi finanziaria da un lato e la guerra al terrorismo dall’altro pongano le democrazie occidentali in uno stato d’eccezione permanente. In accordo con Giorgio Agamben egli rileva infatti come lo stato d’eccezione sia divenuto un paradigma ordinario di tecnica di governo. Solo pensando una qualche forma di relazione tra norma ed eccezione, si può evitare dunque un uso indiscriminato della violenza.
La quarta sezione, in cui trovano spazio due saggi, è dedicata al pensiero internazionalista di Schmitt. Già sul finire degli anni ’30 del Novecento l’attenzione del giurista si concentra, infatti, nel definire una dimensione spaziale che superi quella statale ritenuta ormai irrimediabilmente in crisi. L’esito finale di tale ricerca è la celebre teoria del Nomos. Il termine Nomos non deve essere tradotto con “legge”, ma pensato come una categoria spaziale che definisce l’unità di ordinamento e localizzazione (Ordnung und Ortung). Schmitt pensa ad un ordinamento di grandi spazi (Groβräume), caratterizzati da una omogeneità culturale di fondo, all’interno dei quali una forza egemone di tipo imperiale (Reich) impone il divieto di intervento da parte di potenze straniere. Il primo contributo, seguendo il ragionamento di Schmitt, evidenzia dunque come all’Europa manchi innanzitutto una configurazione spaziale concreta, essendo stata concepita fino ad oggi meramente come uno spazio economico di libero scambio. Il secondo contributo, invece, confrontando il pensiero internazionalista di Schmitt con le teorie di Samuel Huntington, Herfried Münkler, Antonio Negri e Michael Hardt, rileva quello che è il punto critico, nonché inquietante, della teoria schmittiana: l’idea cioè che la forza imperiale egemone si configuri a partire da un’omogeneità di tipo etnico-razziale. Questo elemento mostra inoltre l’incapacità da parte di Schmitt di superare fino in fondo il modello statale.
Nella quinta sezione vengono presentati due saggi sull’influenza che Hobbes e Bodin hanno esercitato nella formulazione del pensiero schmittiano. Il legame con Hobbes è individuato in una precisa idea di conservatorismo che ha come elemento saliente: una visione antropologica negativa segnata da una debolezza e mancanza di fondo. Da Bodin, invece, Schmitt eredita il concetto di una sovranità indivisibile, espressione di un monoteismo neutrale che si pone quale obbiettivo la formulazione di un diritto anti-confessionale e anti-ideologico.
Nella sesta sezione, infine, il primo contributo pone l’attenzione sulla centralità che la critica schmittiana riconosce al saggio Der Begriff des Politischen. In esso, infatti, sono poste le basi per quel ripensamento generale delle categorie politico-giuridiche non più incentrate sull’ordinamento statale che Schmitt svilupperà nelle opere successive. Il secondo contributo elenca quelli che per l’A. sono gli elementi fondamentali da tenere in considerazione nell’interpretare l’opera schmittiana: una distinzione preliminare degli ambiti tematici che nei testi si succedono senza soluzione di continuità (giuridico, politico, culturale, storico, filosofico), una presa di posizione in merito al significato che i testi schmittiani apparsi tra il 1933 e il 1945 assumono nel contesto del regime nazionalsocialista, l’astenersi da valutazione di tipo moralistico sia in senso apologetico che anti-apologetico.
L’A. ha l’indubbio merito di aver mostrato l’enorme cogenza che il pensiero politico di Schmitt conserva al fine di un’interpretazione dei problemi politico-giuridici attuali. Quello che manca tuttavia è a nostro avviso una valutazione in merito a quello che l’A. stesso individua quale nucleo teorico fondamentale del pensiero schmittiano, ovvero l’idea che il diritto e la politica possano assumere un significato specifico solo a partire dalla “messa in forma” di una “materia storica” che si presuppone informe. L’opera decostruttiva che Schmitt porta avanti nei confronti del pensiero politico moderno muove infatti da una visione apocalittica della storia. Per il cattolico Schmitt è l’unicità dell’irruzione cristiana dell’eterno nel tempo, del divino nell’umano, a fare della storia un tempo escatologico. Segnato dall’attesa del giudizio finale l’uomo è infatti sospeso tra il nulla e la gloria. Solo a partire da tale visione della storia si può comprendere la funzione meramente rappresentativa e katéchontica che spetta al potere politico. Senza tale analisi preliminare, l’uso dello strumentario critico schmittiano in funzione di un’analisi del presente rischia a nostro avviso di cristallizzare il pensiero di Schmitt sottraendolo dal contesto nel quale era stato pensato.
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