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Book Review: Alfredo Ferrarin, “Il pensare e l’io. Hegel e la critica di Kant” (Arianna Longo)

Proponiamo la recensione del testo di Alfredo Ferrarin, Il pensare e l’io. Hegel e la critica di Kant, scritta da Arianna Longo e apparsa sull’ultimo numero di Universa. Recensioni di filosofia (Anno 6, vol. 1 – 2017). Il testo PDF della recensione è disponibile qui.

Alfredo Ferrarin, Il pensare e l’io. Hegel e la critica di Kant, Carocci, 2016, pp. 244, € 25, ISBN 9788843082469

Arianna Longo, Università degli Studi di Padova

Il pensiero permea ogni istante e ogni atto della nostra esistenza. Diverso può essere il grado di consapevolezza che ne abbiamo, ma l’essere umano pensa costantemente e non fa nulla senza che il pensiero lo attraversi. Eppure, il nostro quotidiano esercizio del pensiero sembra restituire un’immagine ben più discontinua di questa fluidità. Ognuno di noi è stimolato a pensare dalla realtà in cui vive, ma la varietà prospettica è pressoché infinita e così, diverse sono le cose, le circostanze fortuite, le condizioni psicologiche a partire da cui pensiamo. Perciò, se dovessimo esaminare l’attività del pensiero, probabilmente cercheremmo di decifrarla a partire dagli oggetti, dalle situazioni e dagli stati soggettivi in rapporto a cui di volta in volta, concretamente, si pensa. Il libro di Alfredo Ferrarin, Il pensare e l’io. Hegel e la critica di Kant, prova a percorrere una strada diversa: in appena 240 pagine, l’A. indaga il pensare a partire dal pensare stesso, vale a dire, indipendentemente da ogni elemento particolare, esteriore e contingente che sembra determinarne il nostro consueto esercizio.

L’Introduzione espone i tratti salienti della concezione ordinaria del pensare e le relative critiche di Hegel alla moderna filosofia della riflessione – il coacervo dei presupposti di senso comune e intelletto. Un primo passo, questo, per ridefinire i termini di due questioni fondamentali: quale realtà abbia il pensiero e chi ne sia il soggetto.

Il cap. I sgombera il campo dagli assunti concernenti la soggettività del pensare, sia essa intesa come io, o come noi. La Filosofia dello spirito soggettivo dell’Enciclopedia mostra che il concetto hegeliano di soggettività è più ampio di quello di io: quest’ultimo corrisponde a un momento intermedio, né fondativo né conclusivo. La coscienza, infatti, non è un dato originario, ma è preceduta dall’anima, un soggetto «in immediata unità con la sua naturalità», dunque «non autocosciente» (p. 40). L’io conscio di sé è invece il risultato di una graduale emancipazione dalla natura che culminerà con la scissione – necessaria affinché si dia un individuo autocosciente – tra soggetto e oggetto. Inoltre, dal medesimo contesto sistematico si evince che l’io giunge alla consapevolezza di essere da sempre un noi, cioè perviene a sapersi come spirito. Un passaggio, quest’ultimo, che secondo Hegel non sarebbe stato spiegato da Kant, ma che si può intravedere nella priorità della sostanza spinoziana sugli individui e nella concezione aristotelica dello zoon politikon (p. 44). Quanto detto porta a considerare il secondo aspetto, ossia gli assunti relativi al noi, quelli per cui il riconoscimento sarebbe la genesi del soggetto transindividuale del pensare. Come fa notare l’A., il riconoscimento ha una funzione sempre più circoscritta dai primi anni di Jena, alla Fenomenologia del 1807, fino all’Enciclopedia e ai Lineamenti: esso non costituisce più la base della socialità né legittima le istituzioni politiche (si legga tra le righe l’invito a non farne “il principio della filosofia pratica”, come vorrebbe L. Siep). Neppure l’autocoscienza nasce dal riconoscimento, bensì dalla coscienza: l’io si forma nel rapporto riflessivo con sé e non nel rapporto reciproco a un altro: ciò valga a confutare la tesi di R. Brandom, per cui l’autocoscienza sarebbe un risultato sociale, e quella di R. Pippin, che confonde «l’operare di tutti e di ciascuno» dell’eticità con una mera parvenza di reciprocità (il riconoscimento in realtà, non è ottenuto né dal servo né dal signore). Infine, l’A. pone l’accento sull’esito del percorso fenomenologico, ovvero sull’emergere di una nuova nozione di soggettività, quella della scienza stessa: il sé del pensiero libero da presupposti è il concetto.

Se l’autocoscienza non è il soggetto primo né ultimo del pensiero, allora non si può escludere la possibilità di un pensiero inconscio. Con questo termine si può indicare ciò che sfugge alla consapevolezza dell’io, «le varie attività irriflesse di cui si occupa la filosofia dello spirito soggettivo», oppure «il pensiero all’opera dappertutto, nella natura e nello spirito», vale a dire ciò che costituisce «l’intelligibilità oggettiva» del mondo (p. 22). Con questo secondo senso di pensiero inconscio, non ci si limita a un pensare transindividuale, ma si è spinti a considerare un pensiero «non umano», di cui l’A, nel cap. II, distingue tre aspetti: il pensiero oggettivo, il logico come anima della realtà e il concetto come primo. Da una parte, il pensiero è detto oggettivo in senso anti-soggettivistico: attraverso il movimento del pensare esposto nella Logica emergono le determinazioni degli oggetti stessi e non le proiezioni o astrazioni dell’io particolare. Dall’altra, il pensiero è oggettivo in senso produttivo, poiché esso non assume i suoi oggetti dall’esterno, ma li costituisce da sé, o meglio, fa di se stesso il suo oggetto: un’unica attività di pensiero determina se stessa in pensieri molteplici. Dall’inversione hegeliana della concezione ordinaria del pensare risulta, dunque, che i concetti determinati sono i prodotti dell’autodeterminazione del concetto. Tuttavia, tale attività di autodeterminazione genera un’ambiguità interna al das Logische: quella tra il logico che innerva il reale e il logico che è oggetto della logica, tra «la forza inconscia che anima il processo» del pensiero e «la compiuta coincidenza» a cui anela la scienza, tra «il principio che lotta per affermarsi» e quello che «ripercorre se stesso retrospettivamente» (p. 85). Un’ambiguità che si rispecchia nell’idea assoluta, ossia nella dialettica come istinto e metodo, e che rimanda, con la sua Entäußerung, all’ambiguità tra natura logica e natura fisica. Intendere i concetti determinati come l’auto-oggettivazione del concetto ha anche delle ricadute sul rapporto tra il pensare e l’io: se il concetto è primo solo in quanto risultato della sua stessa attività ed è attività in sé compiuta, in cui il soggetto agente è il fine stesso dell’agire (l’energeia aristotelica), allora il pensare è assoluto solo in quanto sa se stesso come il principio della totalità teleologica dei suoi momenti. Pertanto, non vi è un assoluto che, compiuto in se stesso, si risolva poi nel finito (ciò valga a smentire l’ipostatizzazione dell’idea del realismo metafisico): il pensare transumano, per quanto incondizionato, si conosce soltanto attraverso il pensiero umano. Oltre a ciò, il concetto come primo porta a riconoscere che l’io è la forma pura del pensare. Dell’io vanno allora distinti due modi: la coscienza finita e l’autoconoscenza della ragione. In questo secondo modo, l’io è l’universale concreto, il pensiero che pensa se stesso, l’esistenza del concetto libero (p. 106).

Il cap. III delinea i caratteri del movimento del pensare mediante la dialettica di spontaneità e reificazione. L’analisi dell’A. permette di cogliere la specificità del pensiero di Hegel in rapporto a quelli che sono i suoi punti di riferimento principali, ossia Kant e Aristotele. Il rapporto tra l’io penso e il senso interno e quello tra il nous attivo e il nous potenziale presentano una struttura simile alla ragione hegeliana, e tuttavia soltanto in quest’ultima la passività ha un ruolo chiave all’interno della stessa attività: per Hegel, infatti, è il medesimo soggetto dell’attività a farsi passivo al fine di riconquistare se stesso dai prodotti in cui si è oggettivato. La reificazione della spontaneità è una Sichselbstentäusserung: nei suoi prodotti finiti, il pensare infinito realizza se stesso, e l’oblio di sé dell’attività – che non riconosce la genesi del dato in se stessa – viene tolto. A questo punto, però, non ci si può non domandare: se l’attività del pensiero è un’autoproduzione e il soggetto dell’attività è un pensare irriducibile all’io particolare, che ruolo svolge quest’ultimo nella produzione del primo? In polemica con il realismo metafisico e le letture trascendentaliste, l’A. afferma che per Hegel «l’autoproduzione dell’idea coincide con la nostra produzione» (p. 136) e il produrre va inteso come la trasformazione operata dal pensiero sui suoi oggetti. Il prodotto di questa trasformazione è l’idealità: il pensare trasforma ciò che pretende di avere una sussistenza fissa e isolata nel momento costitutivo di una totalità di rapporti. E proprio in ciò risiede la verità del rapporto tra finito e infinito: «i concetti determinati, così come il finito tutto, non vanno considerati nella loro realtà separata, ma come ideali» (p. 115).

La ridefinizione dello statuto della passività come momento dell’attività prosegue nel cap. IV, in cui l’oggettivazione a sé del pensare fuoriesce dalle «regioni umbratili» della logica per entrare nella sfera dello spirito. L’obiettivo è dimostrare che la reificazione non è una perdita irrevocabile di sé, bensì il modo in cui il pensiero ottiene l’oggettività della sua libertà (al contrario di quanto sostenuto da M. Adorno e T. Horkheimer). Due sono le forme di reificazione ivi discusse: l’abitudine e la rappresentazione. Per quanto concerne la prima, va notato che Hegel, diversamente da Hume, non intende l’abitudine come un prolungamento della natura e, diversamente da Kant, neppure come passività ed esteriorità: essa è piuttosto una seconda natura (il prodotto della mediazione dello spirito) e un’attività che non trova ostacoli alla realizzazione dei fini che si pone, dunque al proprio compimento. La rappresentazione, invece, interiorizza il dato dell’intuizione e, come immaginazione, reifica il razionale «nei segni oggettivi in cui si dà un’esistenza figurata» (p. 146). In tal modo, lo spirito fa dell’essere una sua proprietà ideale e al contempo fa di se stesso un essere, una cosa (per un’analisi dell’immaginazione in Hegel in rapporto alla phantasia di Aristotele e all’immaginazione di Kant, si veda dello stesso A.: Hegel and Aristotle, pp. 287-308). Infine, dalle considerazioni dell’A. sul confronto tra il giudizio kantiano e la proposizione speculativa hegeliana si evince un carattere fondamentale per comprendere la rideterminazione del soggetto del pensiero in Hegel: da base di un movimento che gli rimane esterno, esso sarà il movimento stesso del pensare che diviene cosciente di sé.

Il cap. V è il più denso e affascinante: attraverso la progressiva erosione dei presupposti più pervicaci che presiedono alla lettura di Hegel, cioè una certa immagine stereotipata di Kant, il testo pone le condizioni per un confronto rinnovato tra i due autori e chiarisce uno dei nodi cruciali del pensiero hegeliano. Le critiche che Hegel rivolge a Kant circa il rapporto tra il pensare e l’io sono note: l’io kantiano è sì ciò in cui si manifesta la ragione, ma esso è soltanto l’io della rappresentazione, teso tra l’esistenza sensibile del senso interno e la soggettività vuota dell’appercezione trascendentale. L’io in cui la ragione si dà un’esistenza non è altro che la coscienza finita e ciò dipende dalla scissione di forma e contenuto nei due Fakta della ragione, che decreta la dipendenza del concetto dall’esperienza. Rispetto a questa critica, l’A. fa notare che in Kant la forma non è separata dal contenuto, bensì dalla materia. Inoltre, da un rapido esame del concetto hegeliano di Wirklichkeit, risulta che la faule Existenz può essere intesa come il termine corrispettivo della materia kantiana. In altre parole, anche in Hegel vi sarebbe un aspetto che si presenta al pensiero in tutta la sua esteriorità, che non è di per sé incluso nell’unità di contenuto e forma. Il vero discrimine tra l’uno e l’altro non è, quindi, il rapporto tra quei due termini, bensì «l’essere del finito» (p. 202): in Kant esso è il punto di partenza che la ragione deve assumere in tutta la sua eterogeneità, mentre per Hegel dev’essere ridotto a idealità. Ma per compiere questa operazione è necessario andare oltre il modello di determinazione causale della ragione kantiana: se essa, in quanto legislativa, si sdoppia in un lato attivo che agisce su uno passivo, in quella hegeliana è il lato passivo a divenire, da se stesso, attivo. Ritorna così il riferimento congiunto a Spinoza e Aristotele: la sostanza del primo, come causa sui, è la «costituzione di una totalità unificata […] innervata da rapporti reciproci» (p. 232) e l’hexis del secondo è «potenza formata, il divenire di sé attraverso la propria azione» (per un approfondimento di questo aspetto, si veda quanto scritto dall’A. in Hegel and Aristotle, pp. 394-411). Sulla base di quanto detto, risultano molto più chiare le vere differenze tra Kant e Hegel, che l’A. non manca di sottolineare: se il problema hegeliano non è più quello di dimostrare la realtà oggettiva dei concetti, bensì la realtà del concetto (al singolare) che si determina in modi particolari (così facendo Hegel risolve anche l’ambiguità della ragione kantiana tra architetto e organismo mediante il ricorso alla finalità interna), a cambiare è tanto la realtà del pensare, quanto il soggetto del processo di realizzazione. Quanto detto implica, inoltre, la rideterminazione del rapporto tra verità e storia, come quello tra filosofia e storia della filosofia (per un approfondimento dei suddetti aspetti in Kant, si confronti quanto scritto dall’A. in The Powers of Pure Reason).

Il libro ha due meriti indiscutibili. Il primo è quello di fare chiarezza, proprio attraverso il confronto con Kant, su una delle eredità più scomode e vitali che il pensiero hegeliano abbia lasciato, ossia la tesi dell’idealità del finito. Per coglierne l’importanza, basti ricordare che il termine “idealismo” non ha goduto di grande fortuna nella storia della filosofia; perlopiù, esso ha dato adito a numerosi fraintendimenti. D’altra parte, nella seconda nota al paragrafo della Scienza della logica dedicato all’infinità (GW 5, p. 172), Hegel sostiene che l’idealismo è il «principio» di ogni indagine filosofica, il discriminante tra ciò che è filosofia e ciò che non lo è. Il secondo merito è quello di invitare il lettore a interrogarsi sulla questione seguente: se il pensare si realizza nell’io e solo in questa realizzazione esso ottiene la sua libertà, l’io si deve fare portatore della realizzazione di una libertà non solo individuale. Come si è cercato di evidenziare, il pensiero «non umano» di cui si parla nel testo è la condizione di pensabilità di una libertà non finita a cui l’umano può giungere. Così dicendo, non si intende risvegliare la volontà di potenza di un super-individuo, bensì richiamare ciascuno, nella sua singolarità, a pensare e ad agire in modo adeguato alla parte migliore di sé.

Bibliografia

Alfredo Ferrarin, Hegel and Aristotle, Cambridge University Press, 2004.

Alfredo Ferrarin, The Powers of Pure Reason: Kant and the Idea of Cosmic Philosophy, University of Chicago Press, 2015.

 

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