Proponiamo la recensione al testo di Julia Peters, Hegel on Beauty, scritta da Francesco Campana e apparsa sull’ultimo numero di Universa. Recensioni di filosofia. Il testo in PDF della recensione può essere scaricato al seguente link.
Julia Peters, Hegel on Beauty, Routledge, 2015, pp. 162, $ 140.00, ISBN 9781138795952
A partire dalla constatazione hegeliana della precarietà del valore e del significato dell’arte nel moderno, Julia Peters, in Hegel on Beauty, propone un’analisi complessiva del concetto di bellezza all’interno del pensiero di Hegel, fornendo un’interpretazione per diversi aspetti originale. Il volume si articola in sei capitoli, preceduti da un’introduzione nella quale si presentano alcuni dei principi cardine alla base dello studio. Innanzitutto, si evidenzia come, per Hegel, vi sia una relazione costitutiva tra arte e bellezza, in ragione della quale l’opera d’arte è tale, in parte, anche per il suo essere bella. Dato questo rapporto non accidentale, una delle ragioni principali della messa in discussione dell’arte nel moderno è rappresentata dalla crisi di legittimità del concetto di bellezza. Ci si sofferma quindi sul fatto che, per Hegel, il modello massimo di bellezza sia da rinvenirsi nell’arte e, più in generale, nel panorama culturale della Grecia antica. Di qui, si esamina in che misura egli condivida una visione “neoclassicista”: se, da una parte, l’arte della Grecia classica ha prodotto per Hegel il più compiuto esempio di bellezza, dall’altra, non si può trarre da tale picco epocale alcun parametro normativo riproducibile nel moderno. Tuttavia, uno degli obiettivi del saggio è quello di proporre una critica al concetto di bellezza che sia, in primo luogo, hegelianamente immanente, una critica cioè che non sia diretta a evidenziare l’incompatibilità contestuale tra i valori del moderno e quelli dell’antico, ma denunci un’insufficienza intrinseca allo stesso concetto greco di bello. Si passa poi a esporre il concetto hegeliano di bellezza classica, mostrando come esso partecipi di una dimensione non solo estetica, ma anche politica, etica e religiosa, e si esemplifichi nella compiuta unione, che troverà nella figura umana il suo modello, dello spirito in un corpo sensibile. Si delinea quindi la struttura del volume, idealmente suddiviso in due parti tra loro strettamente legate: dal primo al terzo capitolo, viene affrontata l’analisi della concezione hegeliana di bellezza classica (“Hegel’s affirmative relation to the classical conception of beauty”, p.9); gli ultimi tre capitoli, invece, sono dedicati all’esame della tensione interna a tale concetto e ad alcuni sviluppi dell’arte post-classica (“his [Hegel’s] critical stance” nei confronti del concetto di bello, p.10).
Nel primo capitolo, The Anthropological Roots of Beauty, l’A. intende contestare la diffusa lettura secondo la quale la bellezza, per Hegel, sarebbe un fenomeno essenzialmente artistico. L’intento è quello di mostrare come il riferimento, presente nelle pagine dell’Estetica, alla figura umana, la cui anima interiore diviene visibile nel corpo, non sia una semplice metafora o un’analogia, ma debba essere concepito come un’indicazione del potenziale estetico proprio dell’umano e addirittura come il paradigma del concetto di bello. Viene perciò proposto uno stretto confronto tra l’Estetica hegeliana e la sezione Antropologia dello Spirito soggettivo dell’Enciclopedia, al fine di mostrare la complementare relazione tra le due. Secondo Hegel, l’essere umano si distingue dagli oggetti inanimati e dagli altri organismi viventi (vegetali, ma anche animali) per il fatto di avere la capacità di plasmare la propria dimensione esterna attraverso il versante spirituale: con l’acquisizione di abitudini, l’essere umano si libera dal corpo esterno in quanto entità estranea e opposta all’interiorità (in quanto “prima natura”), e lo integra in unità con l’anima, acquisendo così una “seconda natura” e pervenendo a quella che Hegel chiama “anima reale”. L’essere umano, tuttavia, per completare il proprio percorso di liberazione, deve andare oltre l’identità tra spirito e corpo e il suo spirito deve ritirarsi e distinguersi dall’esteriorità, diventare cosciente e farsi soggetto, farsi io. Se perciò l’“anima reale” costituisce un ammirevole risultato dotato di eccellenza estetica, il suo carattere ancora preliminare nello sviluppo spirituale dell’essere umano ne rivela i limiti. Il capitolo si conclude con l’analisi dell’“anima reale” come peculiare esempio di segno, in cui un’unità di interno ed esterno manifesta se stessa: essa è un segno, perché non significa altro che se stessa (e quindi non è un simbolo che, inteso in senso hegeliano, rimanderebbe ad altro da sé), ma è un segno del tutto particolare, poiché la relazione tra sé e ciò che essa significa non è né convenzionale, né arbitraria (come accade, invece, per il segno genericamente inteso).
Hegel on Beauty, Nature and Art: Towards a Novel Interpretation, il secondo capitolo, approfondisce la discussione dei passi dall’Estetica e dall’Antropologia, con l’intento di fornire evidenze testuali alla complessa interconnessione tra l’arte bella (classicamente intesa) e la figura umana. Vengono quindi esaminate le letture predominanti che negano in Hegel una continuità tra arte e natura e sostengono che la natura non sia un elemento essenziale del bello. Discutendo le differenti posizioni di autori come Gethmann-Siefert, Bungay, Desmond, Hilmer e, soprattutto, Adorno, viene rilevato in generale il fatto che essi, non considerando adeguatamente la differenza presente in Hegel tra la natura umana e il resto della natura, mancherebbero di prestare la dovuta attenzione all’unità, prodotto dell’attività spirituale umana, di spirito e natura che si manifesta nell’“anima reale”.
Nella prima parte del terzo capitolo, The Value of Beauty, Aesthetic Experience and the Aesthetic Human Ideal, l’A. intende superare la contrapposizione, spesso richiamata dalla critica, tra un Hegel promulgatore di un approccio estetico “oggettivista” nei confronti del bello e un Kant che sosterrebbe, invece, una visione “soggettivista”. Anche in Hegel, infatti, il versante del fruitore ha un’importanza centrale, dato che il valore attribuito al bello e la sua esperienza ruoterebbero proprio attorno al riconoscimento, da parte degli individui, di quella medesima unione di spirituale e naturale che li costituisce nell’altro da sé che è l’opera d’arte. Nel prosieguo, si fuga l’obiezione secondo la quale, dalla visione fin qui proposta, l’arte potrebbe sembrare, a livello estetico, subordinata alla figura umana e si sostiene, invece, che tra le due intercorra un complesso rapporto di mutua dipendenza. Benché l’arte, per essere bella, debba farsi ispirare dalla figura umana, gli individui, nella loro realtà contingente, non realizzano appieno il loro potenziale estetico e l’arte, che invece supera e perfeziona i difetti del reale, fornisce loro un ideale estetico normativo. Allo stesso tempo, però, poiché l’“anima reale”, che rappresenta l’eccellenza estetica, non perviene alla soggettività, ovvero allo stadio finale dello sviluppo spirituale dell’essere umano, l’ideale estetico è carente, dal punto di vista della concezione normativo- teleologica dell’essere umano propriamente compiuto.
Il quarto capitolo, The Beautiful Character and Its Limits, tratteggia le proprietà del carattere bello e ne mostra le criticità, con una particolare attenzione nel rilevare le vicinanze tra ideale estetico e senso comune. Un carattere bello è un’individualità che sperimenta l’unità con sé e il cui volere si manifesta, mediato dalle abitudini, nell’azione. L’eccellenza estetica, però, non corrisponde affatto alla nobiltà etica: la “seconda natura” di un carattere bello può essere costituita, infatti, da intenti malvagi e anche il carattere bello che persegue fini eticamente positivi, poiché non è in grado di porre quella distanza da sé che gli conferirebbe la soggettività, è incondizionatamente devoto al principio che costituisce la propria identità ed è soggetto a un’inflessibilità etica, che non garantisce e, anzi, impedisce l’agire in modo propriamente giusto. Si sottopone perciò a esame il caso degli eroi della tragedia classica, che, nell’interpretazione dell’A., sono il massimo esempio di bellezza, esteticamente superiori, da un punto di vista hegeliano, anche alle statue delle divinità perché, nel loro dinamico prendere parte all’azione, acquisiscono quella “seconda natura” che alle statue degli dei manca. Il carattere bello dell’eroe tragico incarna uno dei principi della comunità di riferimento, ma, proprio per il fatto di incarnare in modo parziale uno solo di tali principi, sperimenta il conflitto etico con i rappresentanti degli altri valori della stessa comunità (si analizza a fondo la figura di Antigone, che personifica la “legge divina”, contrapposta a quella di Creonte, che rappresenta la “legge umana”). Si affronta poi il caso di caratteri che manifestano principi validi solo dal punto di vista dell’individuo (e non della comunità), ovvero il caso di caratteri belli, ma non eroici (gli esempi sono i personaggi shakespeariani di Giulietta e Macbeth).
Beyond Beauty: The Pain of Inner Division, il quinto capitolo, esamina a fondo le carenze che minano dal suo interno il carattere bello della tragedia greca e che si esprimono nel sentimento del dolore, inteso come divisione interna all’unità di spirito e natura. Tali difetti, tuttavia, non sono per Hegel qualcosa di esclusivamente negativo. Al contrario, essi conducono all’emersione di un nuovo tipo di personalità, che va oltre il paradigma dell’unione di spirito e natura. L’A. si interroga sul significato della riconciliazione e della giustizia prodotte dalla soluzione del conflitto tragico e riprende l’esempio principe di Antigone, questa volta nel momento della sua sofferenza nello scoprire di essere respinta dalla comunità cui appartiene. In tale circostanza, Antigone mostra una dimensione di profondità e di soggettività che non avrebbe se fosse solamente un carattere bello (è quello che qui viene chiamato “the ‘darker side’ of Antigone”, p.100). Si affronta quindi il superamento dell’ideale classico della figura umana da parte dell’arte cristiana del Medioevo, entrando così nell’ambito di quella che Hegel chiama “arte romantica”. Qui la rappresentazione della figura umana ruota proprio attorno all’elemento del dolore, alla rottura della compiuta identità di interno ed esterno e al graduale superamento della dimensione naturale da parte di quella spirituale (su tutti, l’esempio nell’arte è la figura del Cristo sulla croce).
Nell’ultimo capitolo, Modern Beauty, l’A. prosegue il discorso riguardante l’arte post-classica e si domanda che cosa diventi, per Hegel, l’arte nella modernità e se essa abbandoni la bellezza nel suo complesso. Vengono affrontate diverse interpretazioni recenti della tesi sulla cosiddetta “fine dell’arte”, viene esaminato il carattere dell’opera d’arte nel moderno (con particolare attenzione alla nozione di Schein) e ci si interroga sulla possibilità di considerare bella l’arte astratta. Sia le posizioni di chi tende a vedere un’emancipazione dell’arte dal bello e una sua progressiva sostituzione con la filosofia (Henrich, Danto) che quelle di chi ritrova delle possibili forme alternative di bellezza rispetto alla concezione classica e un persistere della rilevanza dell’arte nel moderno (Gethmann- Siefert, James, Pippin, Houlgate, Rutter) sembrano trovare appigli all’interno dei testi hegeliani, dal momento che, se Hegel non sembra in realtà negare la possibilità del bello nel moderno, nel contempo, non indica con chiarezza che tipo di bellezza sarebbe. L’A. rimane possibilista circa le due alternative; tuttavia, proprio il percorso tracciato nel libro, che ha mostrato un legame indissolubile tra arte e bellezza e, insieme, un’irreparabile crepa interna all’ideale estetico di bello, dovrebbe per lo meno rendere ragione di questa “uncomfortable dialectical situation” (p.143).
Il volume presenta un’interpretazione di interesse, specie nel generale accostamento tra l’ambito estetico e quello antropologico, e l’A. riesce nel complesso ad argomentare con efficacia diverse analisi, che spesso sono in controtendenza rispetto a quelle della letteratura critica canonica. Il finale aperto del libro lascia spazio a ulteriori sviluppi della linea ermeneutica proposta, sia rispetto a tematiche interne ai testi hegeliani (potrebbe essere fruttuoso, per esempio, un raffronto diretto con concetti come quello di “brutto”) che riguardo alla possibilità di approfondire maggiormente il confronto con altri autori che hanno discusso, anche con riferimento a Hegel, i medesimi problemi (da Adorno a Danto).
Francesco Campana, Università degli Studi di Padova
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