In occasione del quinto compleanno di hegelpd (3 novembre), siamo felici di proporre un’intervista concepita appositamente per il nostro blog. A rispondere ad alcune domande riguardanti la sua formazione di studiosa e lo stato degli studi della filosofia classica tedesca, la dimensione sempre più marcatamente globale della ricerca, la questione di genere e l’avvento delle nuove tecnologie, è stata la professoressa Francesca Menegoni, che ringraziamo di cuore.
Francesca Menegoni è professoressa ordinaria di filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università degli Studi di Padova. I suoi interessi scientifici si rivolgono prevalentemente all’etica e alla filosofia dell’azione, alla filosofia della religione, alla filosofia classica tedesca (con particolare attenzione al pensiero di Kant e di Hegel). È membro di numerosi Consigli direttivi di riviste e centri di ricerca a livello nazionale e internazionale e, dal 2001 al 2017, ha fatto parte del Consiglio di Presidenza della Internationale Hegel-Vereinigung. Tra i suoi numerosi volumi e contributi, ricordiamo Moralità e morale in Hegel (Padova 1982), Finalità e destinazione morale nella “Critica del Giudizio” di Kant (Trento 1988), Soggetto e struttura dell’agire in Hegel (Trento 1993), Le ragioni della speranza (Padova 2001), Fede e religione in Kant (1775-1798) (Trento 2005), La “Critica del Giudizio” di Kant. Introduzione alla lettura (Roma 2008) e Hegel (Brescia 2018).
Il suo recente volume Hegel (Brescia 2018) costituisce l’approdo di un lungo itinerario di ricerca che ha visto al centro il filosofo tedesco. Vorremmo aprire questa conversazione chiedendole di raccontarci gli inizi di questo percorso e quali sono state le tappe più importanti.
Nel breve Profilo di Hegel, pubblicato da Morcelliana, ho cercato di fornire al lettore un filo conduttore per collegare le diverse fasi della produzione hegeliana, invitandolo a confrontarsi in prima persona con quei testi o con quei luoghi che più attirano la sua curiosità o che meglio rispondono ai suoi interessi. Nel dare questa impostazione a un volumetto, che è stato pensato non tanto come approdo di un percorso di ricerca, quanto come uno strumento limitato per sua natura, dati i rigorosi limiti di pagine fissati dagli Editori della Collana, ha sicuramente agito il ricordo del mio primo incontro con i testi hegeliani durante gli studi universitari tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta. Durante gli studi liceali poco spazio veniva dato alla lettura diretta delle opere degli autori studiati. Nelle aule universitarie si respirava invece un’aria diversa grazie ad alcuni docenti che ci introducevano alla lettura dei classici, antichi e moderni, supportando le linee teoriche presentate nelle lezioni con seminari di discussione e gruppi di lettura. Ho avuto la fortuna di essere introdotta al lavoro diretto sui testi hegeliani fin dal mio primo anno durante il Corso di Filosofia della religione tenuto nel 1969/70 da Franco Chiereghin, un giovane docente che con pazienza e arguzia ci guidava alla comprensione del lessico hegeliano, apparentemente impenetrabile, aiutandoci a cogliere le sue infinite potenzialità. Da quelle lezioni è scaturita la decisione di approfondire lo studio della filosofia hegeliana con la tesi di laurea sul ruolo della religione negli scritti jenesi e con la tesi di perfezionamento (allora il dottorato di ricerca non esisteva) dedicata alla morale hegeliana. Direttore severo di entrambe le tesi (1974, 1976), ma sempre prodigo di consigli, fu Franco Chiereghin. Gli sviluppi di questi primi studi furono esposti in due volumi: Morale e moralità in Hegel (1982) e Soggetto e struttura dell’agire in Hegel (1993). Queste pubblicazioni mi consentirono di accedere a un ambito di ricerche sulla filosofia hegeliana allora agli albori: la moralità, infatti, posta nella Filosofia del diritto tra diritto ed eticità, costituiva all’epoca uno degli aspetti più negletti del sistema hegeliano. L’interesse per la filosofia pratica era prevalentemente orientato verso le strutture della Sittlichkeit e alla dialettica tra società civile e Stato. Ben pochi erano coloro che coglievano nell’esposizione dei concetti portanti della Moralität (il proposito, l’intenzione, la responsabilità, la coscienza morale) linee teoriche che anticipavano i dibattiti dei nostri giorni sull’etica e sulla sua normatività, così come pochi leggevano l’intera filosofia pratica hegeliana come prassi, ossia come esposizione di attività differenziate, un’esposizione che anticipava le direttrici più significative della teoria dell’azione. Per queste ragioni ho concluso il breve Profilo dedicato a Hegel ricordando la sua lezione etica e politica, una lezione che, contemperando le ragioni dell’intero con quelle del singolo, mi sembra conservare intatta la sua attualità.
Negli ultimi decenni, la ricerca in ambito di filosofia classica tedesca ha registrato importanti mutamenti di interesse, aprendosi a sensibilità teoriche molto diverse fra loro. In che modo il confronto con nuovi orizzonti interpretativi ha modificato l’ambito della filosofia pratica? E, più nello specifico, in che misura questo ha influito sulla trattazione del tema che forse più di tutti ha caratterizzato la sua ricerca, ovvero quello dell’azione in autori come Kant e Hegel?
Non c’è dubbio che negli ultimi cinquant’anni la ricerca sulla filosofia classica tedesca ha registrato significativi mutamenti di interesse, grazie all’interazione tra sensibilità teoriche molto diverse fra loro. Nel mio personale percorso di ricerca ho avuto modo di vivere alcuni di questi mutamenti grazie al confronto con alcuni importanti studiosi, che furono protagonisti di alcuni di questi mutamenti. Cercherò quindi di rispondere a questa domanda menzionandone a titolo esemplificativo alcuni.
Vorrei cominciare innanzitutto ricordando la figura di Manfred Riedel, a cui mi rivolsi all’inizio della ricerca sull’azione, dopo aver letto i suoi volumi: Theorie und Praxis im Denken Hegels (1965) e Studien zu Hegels Rechtsphilosophie (1969). In occasione di ripetuti periodi di ricerca presso l’Università di Erlangen, dove Riedel insegnava prima di concludere la sua carriera a Halle, ebbi modo di scoprire con mia sorpresa, frequentando le sue lezioni e i suoi seminari, che nel frattempo si era lasciato alle spalle il cammino che lo aveva portato da Leipzig a Heidelberg, e lì, grazie a Gadamer e Löwith, da Marx a Hegel a Heidegger, perché la teoria della soggettività che aveva delineato in Theorie und Praxis e che era la risposta alla situazione politica e culturale della Germania negli anni Sessanta, non era più idonea a interpretare la mutata situazione del mondo tedesco. Per affrontare i nuovi problemi erano necessari nuovi apparati concettuali, che avevano portato Riedel alla fine degli anni Ottanta a guardare con interesse crescente alla Urteilskraft kantiana e al suo rapporto con la ragione teoretica e pratica per proporre il primato di una filosofia seconda. In questo modo l’ambito pratico tornava ad essere protagonista alla vigilia della riunificazione tedesca, ma in un’ottica completamente diversa rispetto agli anni Sessanta.
Sul primato della filosofia pratica si interrogavano in quegli anni anche altri studiosi con approcci diversi. Per restare sempre all’interno della cerchia di personalità filosofiche che hanno inciso sul mio modo di fare ricerca e che hanno inaugurato nuovi orizzonti interpretativi nell’ambito della filosofia pratica, penso ad Adriaan Peperzak, a Claudio Cesa, a Ludwig Siep. Di Peperzak, allievo di Paul Ricoeur, mi aveva colpito Le jeune Hegel et la vision morale du monde (1960), che rompeva con una lettura stereotipata degli scritti giovanili, e mi affascinava la sua capacità di leggere Hegel dall’interno. Ricordo alcuni suoi seminari organizzati a Napoli dall’Istituto per gli Studi filosofici. Quelle lezioni magistrali si tradussero poi nella pubblicazione di alcuni commentari puntuali alla filosofia dello spirito hegeliana. Di Claudio Cesa ricordo un intervento memorabile a Stoccarda allo Hegel-Kongress del 1981, in cui sostenne che la filosofia morale è l’ambito in cui più profonde sono le differenze tra Fichte, Schelling e Hegel, pur essendo tutti accomunati dall’esigenza di superare il formalismo dell’etica kantiana. Analogo peso ebbero per me gli studi di Ludwig Siep sul tema del riconoscimento come principio della filosofia pratica. Inutile dire quanto questo tema continui a essere presente nel dibattito attuale, in un’ottica profondamente mutata, anche grazie alla sua rivisitazione da parte di Axel Honneth. Altrettanto importante fu il confronto con gli allievi di Siep e, in particolare, con Michael Quante, che aveva pubblicato nel medesimo anno in cui usciva il mio saggio sull’agire in Hegel, un volume intitolato Hegels Begriff der Handlung. La sua lettura metteva a confronto le analisi hegeliane dell’azione descritte all’interno della sezione Moralität con alcune interpretazioni di area analitica, inaugurando quel dialogo tra tradizione analitica e tradizione continentale che ha avuto negli ultimi vent’anni un grande successo.
Passando agli ambiti della sua ricerca, ci piacerebbe ascoltare il suo parere in merito a una questione all’apparenza meramente formale, che ha però anche implicazioni di contenuto. Nell’università italiana, a differenza che altrove, la disciplina “filosofia della religione” non costituisce un settore scientifico-disciplinare specifico e viene inserita perlopiù nel settore di “filosofia morale”. Quali sono le ragioni di questa classificazione e come la valuta?
Per rispondere a questa domanda, è forse opportuno premettere che i settori scientifico-disciplinari filosofici (Filosofia teoretica, Filosofia Morale, Logica e Filosofia della scienza, Estetica, Filosofia e teoria dei linguaggi, Storia della filosofia, Storia della filosofia antica, Storia della filosofia medievale) sono una peculiarità tutta italiana e disciplinano la collocazione di ciascun docente nel sistema universitario. I settori scientifico-disciplinari indicano ambiti di ricerca e comprendono diversi insegnamenti sulla base delle declaratorie specifiche di ogni settore. Se si guarda a quanto presente nell’offerta didattica delle Università italiane, si vede che l’insegnamento di Filosofia della religione è affidato a docenti afferenti ai due settori di Filosofia teoretica e di Filosofia morale. Mi sembra che ci siano buone ragioni per comprendere questo insegnamento sotto entrambi i settori. Per quanto mi riguarda, tengo da parecchi anni il corso di Filosofia della religione a Padova, dopo averlo tenuto per titolarità di cattedra a Genova dal 1992 al 1995, nel solco della tradizione del magistero di Franco Chiereghin. Questo per me significa tenere vivo nei corsi un costante riferimento ai classici antichi e moderni: da Platone e Aristotele, a Spinoza, Kant e Hegel.
Concentrandoci ora sull’ambito specifico della filosofia della religione: cosa comporta fare ricerca in un campo che, almeno apparentemente, condivide molti temi con altre discipline? In che cosa si distingue la prospettiva di un filosofo della religione da quella, per esempio, di un teologo, quando ci si interroga su temi quali Dio, la religione, la fede? In che modo questa differenza ritorna nella lettura di autori come Kant e Hegel?
Fare ricerca nell’ambito della filosofia della religione, ma soprattutto insegnare questa disciplina comporta una sfida impegnativa, che avverto soprattutto quando entro in aula, perché in questo campo è più difficile che in altri separare gli aspetti tecnici, relativi a contenuti e metodi, dagli aspetti che coinvolgono la cultura, la sensibilità e le convinzioni personali. Anche se la filosofia della religione condivide apparentemente i suoi temi con altre forme di sapere (non solo la teologia, ma anche la storia delle religioni, la sociologia della religione, la fenomenologia della religione, ecc.), ha per sua fortuna una sua autonomia e richiede specifiche competenze in ambito filosofico. Spesso nelle mie lezioni propongo la lettura delle opere di Kant e di Hegel, perché meglio e più di altri hanno saputo esplicitare la specificità della riflessione filosofica sulla religione.
Pochi filosofi hanno indagato come Kant la distinzione tra l’ambito della scienza e il campo della fede. Il suo programma critico-trascendentale esamina le diverse modalità del credere, con la distinzione tra fede razionale e fede religiosa, spingendosi fino all’analisi del rapporto tra teologia rivelata e teologia razionale con il confronto critico con la storia plurisecolare delle prove dell’esistenza di Dio. Negli scritti degli anni ’90 si è occupato delle questioni che concernono le religioni storicamente determinate, a cominciare dal cristianesimo e dai suoi contenuti dottrinari, interrogandosi sulla funzione delle comunità religiose e sulle forme degli atti del culto. Molte analisi che sostanziano il dibattito sulle ‘cose di religione’ della prima metà dell’Ottocento si innestano nel solco delle riflessioni kantiane. Grande in particolare è il debito di Hegel nei suoi confronti. Proprio il fatto di essersi misurato con la radicalità della riflessione kantiana è l’elemento che consente a Hegel di compiere il passo oltre la linea di confine tracciata da Kant con la rivendicazione della necessità per la religione di conoscere il suo oggetto più proprio, Dio. Questa conoscenza non diventa tuttavia una materia posseduta, ma si dispiega nella riflessione sul modo del conoscere, diventando una questione di metodo.
Negli ultimi decenni gli orizzonti di ognuno di noi si sono allargati fino ad assumere una dimensione senza dubbio globale. Cosa ha significato e significa, nella sua esperienza di studiosa, un tale cambio di prospettiva?
È vero che la globalizzazione permea e condiziona i nostri orizzonti. Studi diversi ne hanno messo in evidenza gli effetti negativi e quelli positivi nell’economia e nello sviluppo scientifico e, soprattutto, tecnologico. Non mi è ancora chiaro fino a che punto questo fenomeno abbia inciso sulla cultura filosofica. Certo è che l’allargamento degli orizzonti pone alla riflessione filosofica nuovi interrogativi, che riguardano i nuovi modelli economici e di welfare. Sono temi che è doveroso affrontare, per vivere in modo responsabile i mutamenti e le sfide del nostro tempo. Finora ho avuto la possibilità di compiere solo qualche assaggio in quest’ambito di ricerca, come responsabile di un piccolo progetto, che ha fruito della sinergia tra filosofi della morale e psicologi del lavoro attivi all’interno del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università di Padova. Alcuni risultati di questa ricerca sono stati raccolti in due volumi recenti (Etica e mondo del lavoro, 2016 e 2017) e hanno fatto emergere agli occhi di chi vi ha partecipato una pluralità imprevista di prospettive e interazioni, che meritano di essere approfondite, ma che possono essere indagate solo con l’apporto complementare di competenze e metodologie diverse
Stiamo vivendo una vera e propria rivoluzione tecnologica che permea tutti gli ambiti della nostra vita. Come giudica questo cambiamento nel campo degli studi accademici? L’avvento di nuovi mezzi informatici ha avuto un impatto rilevante nel suo modo di praticare la ricerca e di definire la didattica?
La rivoluzione tecnologica, iniziata qualche decennio fa, sembra accelerare sempre più rapidamente e, per certi aspetti, convulsamente. Appartengo alla generazione di chi ha scritto la tesi di laurea con la mitica Lettera 32, tra fogli di carta carbone e correttore. L’uso del computer ha rappresentato una vera rivoluzione del modo e dei tempi della mia scrittura. Altrettanto significativo è stato il cambiamento intervenuto grazie alla possibilità di consultare testi on line senza spostarsi dalla propria scrivania e la possibilità di comunicare con colleghi di tutto il mondo e studenti via e-mail. Non ho alcun rimpianto per la mitica Olivetti; custodisco però come documenti preziosi le lettere ricevute da chi ha svolto un ruolo importante nella mia formazione e provo un po’ di nostalgia per le ore passate nelle biblioteche di mezza Europa a lasciarmi guidare dai libri, quando bastava che l’occhio cadesse per caso sul volume accanto a quello che cercavo, perché si aprisse una pista di ricerca nuova. A fronte dell’uso disinvolto e a volte esclusivo che gli studenti tendono a fare delle pubblicazioni disponibili in rete, temo le conseguenze della perdita della consuetudine con la pagina stampata e della capacità di soffermarsi sulle singole parole, sui rimandi interni, sul confronto meditato con la pagina scritta
Un’altra variazione notevole che merita di essere sottolineata è la presenza sempre più rilevante delle studiose che si occupano di filosofia e, in particolare, di filosofia classica tedesca. Significativo a questo proposito è stato il World WoMen Hegelian Congress, tenutosi con grande successo a Roma lo scorso settembre. Come valuta questa tendenza?
Non mi sembra corretto parlare di presenza sempre più rilevante delle studiose che si occupano di filosofia classica tedesca, perché queste studiose sono sempre esistite, anche se forse sono meno visibili dei loro colleghi. Proprio il World WoMen Hegelian Congress (Roma, 26-28 settembre 2018) ne è una significativa testimonianza. Tra i nomi delle relatrici ho letto quelli di Myriam Bienenstock, Rossella Bonito Oliva, Irene Kajon, Herta Nagl-Docekal, Angelica Nuzzo, Erzsébet Rózsa, Birgit Sandkaulen. Sono studiose ben note e molto stimate nel panorama internazionale. Va pertanto riconosciuto il merito alle organizzatrici dell’evento (Stefania Achella, Gabriella Baptist, Serena Feloj, Francesca Iannelli, Fiorinda Li Vigni, Claudia Melica) di aver messo insieme un cast internazionale davvero notevole. Il problema della presenza di studiose che si occupano di filosofia classica tedesca non è quindi di qualificazione scientifica, ma solo ed esclusivamente di visibilità, a partire dagli organismi direttivi delle maggiori società filosofiche internazionali, in cui la presenza maschile è stata ed è tuttora di gran lunga prevalente. Qualcosa, tuttavia, sta cambiando, anche se molto lentamente. Per questo mi sembra un segnale positivo, che va nella direzione del riconoscimento di un lavoro pluridecennale rigoroso, vedere che la presidenza del Forschungszentrum für Klassische Deutsche Philosophie è affidata a Birgit Sandkaulen e ho salutato con viva gioia la nomina di Dina Emundts alla presidenza della Internationale Hegel Vereinigung.
La penultima domanda riguarda il problema dell’attualità (e dell’inattualità) di Hegel, che – da Croce fino a noi – ha costituito quasi una sorta di luogo comune negli studi hegeliani. Ha in mente uno o più aspetti della filosofia hegeliana che, a suo parere, meriterebbero di essere approfonditi, di contro a un tema o a una prospettiva che invece ritiene difficile attualizzare?
Il problema dell’attualità o inattualità della filosofia hegeliana sembra seguire la regola dei corsi e ricorsi di vichiana memoria. Negli ultimi trent’anni sono stati particolarmente studiati i temi della filosofia pratica hegeliana. L’attuale sinergia tra prospettive filosofiche e linee interpretative diverse fa pensare e sperare che questo interesse sia ben lontano dall’essersi esaurito, perché si interroga sulle radici del nostro essere e del nostro operare. Per le medesime ragioni, per ricordare aspetti attuali, si è guardato e si continua a guardare alle strutture dello spirito soggettivo, perché qui, nel nesso tra teoretico e pratico, si apre lo spazio della libertà umana. Questi ambiti, che vanno ben oltre lo spazio della filosofia dello spirito, offrono ancora interessanti possibilità di approfondimento proprio per l’attualità dei temi discussi. Ci sono tuttavia, soprattutto in ambito internazionale, segnali che fanno pensare a uno spostamento di interesse dai temi dello spirito oggettivo a quelli dello spirito assoluto che, con la nota triade arte-religione-filosofia, sembrano essere il retaggio, oggi improponibile, di un modo di fare filosofia appartenente al passato. Sotto questo riguardo trovo estremamente utile e coraggiosa l’iniziativa di due giovani studiosi, Thomas Oehl e Arthur Kok, curatori di un recente volume intitolato Objektiver und absoluter Geist nach Hegel. Kunst, Religion und Philosophie innerhalb und außerhalb von Gesellschaft und Geschichte (2018). Sulla scorta di questa pubblicazione e di alcuni convegni recenti, ritengo che sia tempo che l’intera filosofia dello spirito assoluto meriti di tornare al centro dell’attenzione, insieme a quella “grammatica” delle strutture dell’oggettività e della soggettività, che è costituita dalla Scienza della logica
Da ultimo vorremmo chiederle di nominare almeno cinque libri o contributi sulla filosofia classica tedesca che sono stati decisivi nella sua formazione.
Per rispondere a questa domanda, devo tornare indietro nel tempo. Vorrei ricordare quindi, in ordine rigorosamente alfabetico:
- Claudio Cesa, Die Krise der Moralphilosophie, in Kant oder Hegel? (1983)
- Franco Chiereghin, Dialettica dell’assoluto e ontologia della soggettività in Hegel (1980); Possibilità e limiti dell’agire umano (1990); Il problema della libertà in Kant (1991), ma anche, naturalmente, ciò che precede questi volumi, a partire da L’influenza dello spinozismo nella formazione della filosofia hegeliana (1961)
- Dieter Henrich, Der ontologische Gottesbeweis (1960)
- Giuliano Marini, Libertà soggettiva e libertà oggettiva nella “Filosofia del diritto” di Hegel (1978)
- Adriaan Peperzak, Autoconoscenza dell’assoluto. Lineamenti della filosofia dello spirito hegeliana (1988)
- Ludwig Siep, Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie (1979)
- Valerio Verra, Introduzione a Hegel (1988)
Si tratta di un elenco solo parziale e approssimativo. Dietro ciascuno dei testi citati, ci sono vari altri lavori che hanno condotto a quegli esiti, ma soprattutto, nella maggior parte dei casi, ci sono studiosi, che ho avuto il privilegio di conoscere di persona e che hanno contribuito in modo decisivo alla mia formazione.
[Hanno collaborato alla realizzazione dell’intervista Giulia Bernard, Armando Manchisi, Francesco Campana, Giovanna Miolli, Luca Corti].
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