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HPD – HOLIDAYS: Review: Anil Gomes, Andrew Stephenson (Eds.), “Kant and the Philosophy of Mind: Perception, Reason and the Self” (Claudia Cavaliere)

Siamo felici di condividere con i nostri lettori la recensione di Claudia Cavaliere al volume Kant and the Philosophy of Mind: Perception, Reason and the Self curato da Anil Gomes e Andrew Stephenson (Oxford University Press, 2017).

La recensione è apparsa in Universa. Recensioni di Filosofia, vol. 9 n.1 (2020) ed è scaricabile in pdf a questo link.

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Il volume Kant and the Philosophy of Mind: Perception, Reason and the Self si presenta come una collezione di quattordici contributi originali di mano di brillanti scholars kantiani (tra cui spiccano i nomi di alcuni protagonisti dei dibattiti attualmente più vivaci nella Kant-Forschung) dedicata a quegli aspetti della filosofia critica compattabili in una teoria kantiana della mente. A motivare il progetto editoriale vi è infatti la convinzione per la quale, alle spalle della risoluzione della domanda sul come siano possibili i giudizi sintetici a priori, – domanda che passa necessariamente attraverso l’analisi del ruolo giocato dalle facoltà cognitive nel processo di produzione della conoscenza – riposi un complesso e variegato account delle nostre facoltà mentali che coinvolge “their role in representation, their logical and transcendental structure, and their expression in thought and action” (p.6).
I quattordici capitoli di cui è composto il volume possono venire raggruppati tematicamente secondo tre grandi questioni, avviate da un primo saggio di natura introduttiva (saggio 1): l’analisi della nozione di intuizione secondo il processo di formazione che le soggiace (saggi 2 e 3) o la sua dipendenza dall’oggetto intuito (saggi 4, 5 e 6); la possibilità di conoscere i propri stati mentali (saggi 7, 8 e 9) o il proprio sé (saggi 12,13 e 14); la teoria kantiana del giudizio (saggi 10 e 11).
Il primo saggio, firmato dal curatore Anil Gomes e intitolato Kant, the Philosophy of Mind, and Twentieth-Century Analytic Philosophy funge da agile introduzione che, delineando una breve storia della ricezione del kantismo nell’ambito della filosofia anglo-americana dell’ultimo secolo, fissa alcune coordinate imprescindibili per chi voglia approcciarsi ai temi kantiani dal punto di vista della filosofia della mente, offrendoci al contempo una panoramica delle tematiche che verranno approfondite nei saggi successivi.
A partire dal secondo saggio si entra nel vivo delle questioni teoretiche affrontate nel volume: in Synthesis and Binding, Lucy Allais si propone di rendere conto del processo di formazione delle intuizioni ricorrendo al modello del binding, ovvero quell’integrazione multisensoriale che risponde al problema per il quale le informazioni da cui siamo costantemente affetti nel corso della nostra esperienza percettiva coinvolgono modalità sensoriali tra loro eterogenee. Alfiere della schiera di interpreti non concettualisti, Allais rinviene l’origine del fraintendimento soggiacente alle interpretazioni concettualiste nella tentazione di identificare il binding con il processo kantiano della sintesi – un’operazione illegittima in quanto, nella sua proposta, il processo di sintesi non è responsabile della formazione delle intuizioni, bensì agisce sulle intuizioni già formate.
Pur veicolando anch’esso una posizione dichiaratamente non concettualista, il saggio successivo (Understanding Nonconceptual Representation of Objects, di Katherine Dunlop) contesta ad Allais l’utilizzo del binding come modello efficace per spiegare la formazione delle intuizioni, sostituendolo con ciò che gli psicologi chiamano “rappresentazioni primitive di oggetti” (p.47): l’outcome del processo di binding comprende infatti “oggetti visivi” quali ombre, fasci di luce e fotopsie, non rispondendo ai criteri necessari per formare gli oggetti discreti che popolano il mondo fenomenico kantiano.
I tre saggi successivi rimangono focalizzati sul tema dell’intuizione, ma spostano l’attenzione sul problema della sua dipendenza dall’oggetto intuito. La posizione kantiana al riguardo, lineare solo all’apparenza, lascia infatti insolute alcune domande rilevanti in un contesto di filosofia della percezione e della mente: l’oggetto intuito deve esistere contemporaneamente all’intuizione empirica corrispondente, o è sufficiente che sia esistito in passato? È possibile avere un’intuizione senza la presenza attuale dell’oggetto che le corrisponde? Detto altrimenti: che cosa significa, concretamente, sostenere che l’intuizione è ciò attraverso cui gli oggetti ci sono dati? A questo riguardo, gli autori presentano posizioni discordanti: il saggio di Stephanie Grüne (Are Kantian Intuitions Object-Dependent?), che ha il suo punto di forza nell’utilizzo di una massiccia e precisa analisi testuale, esclude la possibilità che si possa parlare di una “strong object-dependence” (p.67), senza però impegnarsi in una proposta positiva. Al contrario, il saggio di Colin McLear (Intuition and Presence) si schiera nettamente a favore di un’interpretazione relazionale dell’immediatezza che caratterizza l’intuizione, difendendo la sua posizione da due obiezioni ricorrenti: il caso delle allucinazioni (se gli stati allucinatori funzionassero allo stesso modo di quelli genuinamente percettivi, allora la dipendenza dell’intuizione dal suo oggetto sarebbe necessariamente molto debole) e quello dell’immaginazione (come giustificare il fatto che Kant definisca la facoltà di immaginazione come “la capacità di rappresentare un oggetto anche senza la sua presenza nell’intuizione” (B 151)?). Di tutt’altro avviso è il saggio di Andrew Stephenson, Imagination and Inner Intuition: alla proposta di McLear, il secondo curatore del volume oppone infatti una “representational view” (p.106) per la quale le intuizioni non sono che stati mentali con un certo contenuto rappresentazionale oggetto-indipendente.
Il gruppo costituito dai tre saggi successivi sposta l’attenzione su alcuni problemi connessi al senso interno e alla possibilità di accedere ai propri stati mentali. A partire dalla constatazione per la quale lo spazio, in quanto forma pura dell’intuizione, è delimitato come condizione a priori ai soli fenomeni esterni, con Inner Sense and Time Ralf Bader offre una spiegazione articolata di come il tempo risulti non solo condizione a priori dei fenomeni interni, bensì “la condizione formale di tutti i fenomeni in generale” (A 34/B 50). L’efficacia della spiegazione riposa sul fatto che, grazie all’account offerto, Bader riesce a spiegare non solo in che senso i fenomeni esterni si risolvano in intuizioni temporalizzate, ma anche come salvaguardare la natura atemporale di alcune speciali classi di rappresentazioni (tra cui oggetti astratti e noumeni).
Con un esempio della continuità argomentativa che caratterizza il volume, Andrew Chignell (Can’t Kant Cognize Himself? Or, a Problem for (Almost) Every Interpretation of the Refutation of Idealism) riprende la discussione proprio dal punto in cui Bader l’aveva lasciata, chiedendosi se davvero la concezione kantiana del senso interno renda impossibile una conoscenza del sé empirico. La risposta positiva a questo quesito lo condurrà, nella seconda parte del saggio, a confrontarsi con alcune implicazioni nei confronti della Confutazione dell’Idealismo.
Se Chignell fondava la possibilità della conoscenza di sé su un’analisi del senso interno, Patricia Kitcher (A Kantian Critique of Transparency) la fonda invece sulle caratteristiche dell’appercezione, opponendo la sua posizione alla “transparency thesis” (p.158) formulata da Gareth Evans in The Varieties of Reference.
I saggi presentati nei capitoli dieci e undici spezzano la continuità dell’indagine avviata per mettere a fuoco due questioni concernenti la teoria kantiana del giudizio: in Judging for Reasons: On Kant and the Modalities of Judgement, Jessica Leech si interroga su un apparente puzzle riguardante la modalità dei giudizi, la quale – essendo determinabile solo a partire dal ruolo giocato dal giudizio in un certo contesto, e dovendo ciascun giudizio presentare ognuna delle quattro funzioni logiche dei giudizi kantiani (quantità, qualità, relazione e modalità) – sembrerebbe veicolare la scomoda conseguenza per la quale ogni giudizio non possa mai comparire isolato ma debba sempre trovarsi localizzato in un certo contesto di ragionamento. Nel saggio successivo, Buroker (Kant on Judging and the Will) propone invece una lettura della teoria kantiana del Fürwahrhalten imperniata sul ruolo della volontà nei giudizi, concludendo che la primazia della ragione pratica su quella teoretica si manifesta pienamente solo nei casi che Kant indica come Glaube.
A chiudere il volume sono tre saggi che riportano l’attenzione sul quesito che riguarda cosa noi si possa conoscere di se stessi. Dopo Self and Selves, nel quale Ralph Walker presenta la sua risposta ad alcune perplessità che riguardano il sé noumenico, i saggi di Tobias Rosefeldt e Paul Snowdon affrontano invece due problemi riguardanti i Paralogismi: in Subjects of Kant’s First Paralogism, Rosefeldt contrasta l’interpretazione classica del primo paralogismo, che vedrebbe il vizio logico dell’argomento risiedere nell’utilizzo erroneo del termine “soggetto”, con una sua personale rilettura che sposta la fallacia sulla rappresentazione dello “Io”; da ultimo, The Lessons of Kant’s First Paralogism vede Snowdon interrogarsi sull’eredità del capitolo dedicato ai Paralogismi della ragion pura.
Nel complesso, il volume Kant and the Philosophy of Mind presenta innegabilmente molti punti di forza, a partire dal fatto di riunire in un’unica operazione editoriale un certo numero di contributors di prestigio nel panorama degli studi kantiani. Il volume è caratterizzato da una forte responsività ai recenti dibattiti che animano la comunità dei Kant-scholars, che si riflette nella letteratura secondaria ampia e recente da cui i contributi sono informati. Un valore aggiunto è quello per cui tutti i saggi presentano espliciti riferimenti alle pubblicazioni dei colleghi presenti nel volume, in certi casi confrontandosi apertamente con le loro tesi e creando una piacevole sensazione di continuità.
Nonostante la qualità eccellente dei contributi, nel complesso il volume risulterà verosimilmente interessante solo ad una nicchia circoscritta di lettori kantiani esperti: di alcuni saggi è apprezzabile il valore solo alla luce della loro contestualizzazione all’interno di un dibattito riconoscibile. Dal punto di vista dei contenuti dei saggi, la scelta tematica non è stata ben equilibrata: il solo tema della natura dell’intuizione porta via quasi metà dell’intero volume, lasciando “scoperte” alcune questioni che avrebbero meritato un posto nella seconda parte del volume (su tutte: la relazione mente-corpo, cui non vi è accenno).

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