Siamo lieti di proporre la recensione di Luca Illetterati, apparsa su il manifesto del 13 aprile, al libro di Diego Marconi Il mestiere di pensare (Einaudi 2014). Riguardo allo stesso libro, rinviamo anche alla recensione scritta da Leonardo Caffo su questo blog e a quella di Elisa Caldarola pubblicata su doppiozero. Inoltre, si rimanda al più generale dibattito di questi mesi sul valore del sapere umanistico e della filosofia, di cui abbiamo dato notizia con un articolo di Illetterati.
Il seguente testo è disponibile in versione PDF a questo link.
In una lettera molto famosa, datata 2 novembre del 1800 e indirizzata da uno Hegel trentenne e ancora del tutto sconosciuto al più giovane, ma già decisamente affermato Schelling, si legge: “Nella mia formazione scientifica, che è partita dai bisogni più subordinati degli uomini, dovevo essere sospinto verso la scienza e l’ideale degli anni giovanili doveva mutarsi in forma riflessiva in un sistema”. E subito dopo aggiunge: «mi chiedo ora, mentre sono ancora occupato con questo sistema quale punto di riferimento è da trovare per incidere sulla vita degli uomini”. Questa lettera viene spesso assunta dagli interpreti come testimonianza del passaggio di Hegel da quello che potremmo definire un lavoro di analisi dei fenomeni sociali e culturali – dalla considerazione delle forme di religiosità dei popoli e dalle loro connessioni con le organizzazioni sociali e politiche all’analisi della situazione economica delle società moderne – in direzione della filosofia vera e propria, di una filosofia, cioè, intesa come scienza, come sviluppo sistematico dei concetti, come attraversamento della trama logica dentro la quale i concetti ricevono la loro giustificazione.
Le parole di questa lettera implicano, con il linguaggio caratteristico di quella generazione, alcune delle questioni decisive per la filosofia e per chi abbia deciso di dedicarvisi. Questioni del tipo: in che rapporto sta la filosofia con le altre forme del sapere che indagano specifiche porzioni di realtà? In che senso la filosofia per essere rigorosa e separarsi dalla mera opinione implica un lavoro di astrazione che giocoforza la allontana dalla immediatezza dei nodi problematici da cui pure si origina? Entro quali termini la filosofia è capace di tornare alla concretezza e alla quotidianità della vita per dare coerenza scientifica ai propri asserti?
Queste domande, anche se non esplicitate in una forma così diretta, ma declinate secondo un certo understatement che costituisce una delle cifre stilistiche del suo autore, sono per molti versi all’origine dell’agile e interessante libro di Diego Marconi: Il mestiere di pensare. La filosofia nell’epoca del professionismo (Einaudi 2014). Il tentativo è rendere ragione di quella che può apparire, e in certo modo è, una divaricazione tra la filosofia (o per lo meno un certo tipo di filosofia, soprattutto quella cosiddetta analitica, all’interno della quale si mette lo stesso autore e che viene specificamente considerata soprattutto nei capitoli II e III) e quello che si potrebbe chiamare il mondo della vita, tra il linguaggio filosofico tecnico e specialistico e il linguaggio quotidiano dentro cui si muovono le nostro esistenze; tra la sfera, dunque, del discorso filosofico propriamente detto (discorso che si svolge dentro le riviste specializzate e in pubblicazioni, appunto, scientifiche) e quella del discorso pubblico. Questa divaricazione altro non è, secondo Marconi, che la conseguenza inevitabile del processo di necessaria professionalizzazione a cui è andata incontro, soprattutto nel corso del XX secolo, la filosofia. Una professionalizzazione che è, sostiene l’autore nel I capitolo del libro, che è anche quello per molti versi più significativo, sintomo innanzitutto di crescita e di maturazione, l’esito cioè di un processo che coinvolge la filosofia come qualsiasi altra forma di sapere istituzionalizzato. E’ evidente, infatti, che quanto più una comunità procede e progredisce nell’ambito di ricerca che la costituisce, tanto più si specializza, e quanto più si specializza, tanto più si separa dal discorso ordinario da cui, pure, ha preso le mosse. E il fatto che il sapere filosofico diventi sempre più tecnico e specialistico, non significa, sostiene Marconi contro un’obiezione classica, che esso sia perciò futile, che sia un parlarsi addosso di soggetti appartenenti a microcomunità autoreferenziali e “incestuose”. Se non c’è niente di male nella specializzazione e nel tecnicismo altrettanto non c’è niente di male nella divulgazione o nella partecipazione della filosofia alla dimensione del dibattito pubblico. L’importante, sembra dire Marconi, è non confondere la filosofia (che è ovviamente tecnica, specialistica e tutta interna ai circuiti scientifico-accademici) con la divulgazione filosofica, la quale non ha come proprio fine la produzione di teorie innovative e l’esibizione tecnica degli argomenti che le sostengono, quanto piuttosto, appunto, quello di mostrare in che senso queste teorie apparentemente astruse hanno a che fare con il mondo della vita, in che senso il linguaggio specialistico della filosofia ha radicamento ed effetti nella vita concreta degli uomini.
Ma davvero basta una buona divulgazione per sanare il divario tra la filosofia professionale e il mondo della vita? Davvero la filosofia, una volta diventata professione, può fare a meno, come accade per altre forme del sapere, di porsi dall’interno, e non semplicemente per una esigenza accessoria di giustificazione sociale, una domanda relativa al proprio senso? La questione del rapporto fra il discorso filosofico e la dimensione concreta del mondo della vita non è forse una questione essa stessa filosofica che la filosofia è chiamata sempre ogni volta nuovamente a discutere per essere se stessa? Credo che proprio su questa necessità si fondi quel fenomeno che pure Marconi analizza nei due capitoli conclusivi con un’apertura di sguardo certo non frequente all’interno della filosofia analitica, ossia il rapporto del tutto peculiare e intricato che la filosofia (o almeno una parte di essa) ha con il suo passato. Per Marconi questo rapporto, per quanto non inutile, non è comunque un rapporto costitutivo per la filosofia. La filosofia del passato, per Marconi, o è semplicemente una questione che riguarda la storia della disciplina, ma che non per questo è decisiva per chi intende muoversi all’interno di quella disciplina, proprio come la storia della chimica non è decisiva per chi fa ricerca oggi in chimica, o è una questione di approfondimento culturale o ancora, ed è questa l’opzione a cui Marconi sembra più vicino, è un buon magazzino di argomenti su cui fare palestra. Quel che l’autore non sembra prendere sul serio è il fatto che le filosofie del passato non appartengono semplicemente al passato della filosofia. E non può prenderlo sul serio perché in qualche modo Marconi ritiene che il problema della giustificazione di se stessa non sia un problema a cui la filosofia è chiamata continuamente a rispondere. Se così fosse la filosofia non potrebbe essere quel sapere che, come altre discipline, è capace di progresso. Eppure è qui, io credo, la questione davvero importante, che meriterebbe di venire discussa: in che senso la filosofia è capace di progresso ritornando continuamente su se stessa e in che senso, dunque, in filosofia, il rapporto con la propria storia non è solo un rapporto con il proprio passato? Discutere di questo significa ad esempio discutere del perché la considerazione della filosofia di Aristotele o di Kant è in grado di produrre risposte significative per la filosofia contemporanea diversamente dal modo in cui la discussione delle teorie di Galeno o Morgagni possono essere significative per una ricerca in ambito medico oggi, o le teorie di Lamarck o Spallanzani per il biologo odierno.
Nella sua lettera a Schelling, Hegel dichiarava apertamente la necessità del lavoro astrattivo, concettuale e dunque tecnico della filosofia. Perché è solo attraverso quell’astrazione, quella concettualizzazione e quella tecnicità che l’analisi di alcuni dei problemi decisivi delle nostre vite possono essere davvero compresi e non semplicemente avvertiti. E molto schiettamente si chiedeva anche, anticipando alcune delle traiettorie del dibattito filosofico della seconda metà dell’Ottocento e del Novecento, come questa concettualizzazione possa poi efficacemente incidere sulla vita stessa degli uomini. L’impressione è che Hegel non sarebbe stato soddisfatto se gli avessimo detto che a questi problemi poteva far fronte una buona divulgazione. E altrettanto a Platone non sarebbe probabilmente sembrato convincente pensare il necessario ritorno del filosofo nella caverna come un lavoro di traduzione e semplificazione tra il tecnicismo del sapiente che si muove nella finezza dei concetti e una società immersa negli affanni della quotidianità.
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