Siamo lieti di condividere l’Introduzione al volume Il normativo e il naturale. Saggi su Leibniz di Antonio M. Nunziante (Padova University Press).
Per maggiori informazioni è possibile vedere la presentazione del volume su hegelpd o consultare la pagina online dell’editore.
Ringraziamo il prof. Nunziante per averci concesso di ripubblicare il suo testo.
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Uno tra gli infiniti motivi che rende interessante confrontarsi filosoficamente con Leibniz consiste nel fatto che anche lui, come noi, viveva in un’età di naturalizzazioni. L’Europa del XVII secolo era, infatti, attraversata da un vasto movimento di idee e di autori che includeva al suo interno ricercatori tra loro molto diversi, come Hobbes, Galileo, Huygens e Newton. Al netto delle differenze, tuttavia, gli esponenti della cosiddetta «filosofia riformata» portavano avanti un programma di ricerca comune che consisteva nel cercare di reperire una spiegazione meccanica unica sotto cui ricondurre l’imponente varietà dei fenomeni naturali.
L’idea era più o meno questa: non si dovevano più spiegare i movimenti e gli urti dei corpi, nonché la loro capacità di resistenza, di coesione, di elasticità, etc., ricorrendo alle vetuste categorie della fisica e della psicologia aristotelica, ma bisognava piuttosto affidarsi all’intuizione galileiana secondo cui nei corpi sussistono delle qualità «primarie» (grandezza, figura, movimento), passibili di misurazione esatta e che costituivano, quindi, il fondamento reale della loro oggettività.
Si trattava, come ci avrebbe spiegato Husserl più tardi, della nascita del cosiddetto «naturalismo», ovvero del tentativo di spiegare la natura attraverso l’impiego di quadri concettuali soltanto antropici, esorcizzando cioè il mondo naturale dal regno opinabile delle impressioni soggettive, dalle qualità occulte e dalle forme metafisiche delle precedenti tradizioni scolastiche e tardo-scolastiche.
Leibniz aderì con entusiasmo a questo progetto. Dopo le fasi della prima formazione imbevuta di aristotelismo, il pensatore di Hannover abbracciò con decisione il programma dei novatores della filosofia, condividendo con loro la discussione sui princìpi della meccanica cartesiana. Anzi, egli arrivò al punto di spingersi oltre, provvedendo in prima persona a una riforma della meccanica cartesiana. Quel ramo della meccanica classica che si chiama oggi «dinamica» fu, infatti, fondato da Leibniz, Newton e altri studiosi nell’arco relativamente breve di un ventennio (dagli anni Settanta agli anni Novanta del Seicento).
Leibniz, è un pensatore che sposa il progetto naturalista, lo conosce e lo condivide. Anzi, tra tutti i filosofi della Modernità fu senz’altro tra i più attivi e convinti meccanicisti: i fenomeni fisici e della fisiologia corporea possono e devono essere spiegati meccanicamente, mentre forme, princìpi immateriali e nature plastiche sono ritenuti inutili orpelli dai quali, ci dice, «non si impara nulla». È molto importante fissare questo aspetto: il filosofo delle monadi è innanzi tutto un pieno e convinto sostenitore dei programmi della filosofia riformata e, in questo senso, la filosofia del Leibniz maturo non è una metafisica nel senso tradizionale del termine.
L’elemento di straordinario interesse è presto detto: pur essendo Leibniz un convinto sostenitore del progetto di una naturalizzazione della natura, egli, lavorando dall’interno di questo programma, si rende conto che qualcosa ancora non torna, che gli stessi princìpi della meccanica non sono sufficienti a restituire una spiegazione completa del mondo naturale. Lavorando sui princìpi che strutturano il movimento, Leibniz scopre il mondo delle forze, che è un mondo non immediatamente visibile di potenze, di impulsi, di sollecitazioni al moto e di tendenze all’azione. L’ontologia si amplia: i movimenti (fenomenicamente osservabili, e dunque matematicamente misurabili) vengono separati dalle azioni (che si esercitano a livello intra-fisico e di cui sono misurabili soltanto gli effetti). Ma poiché non esiste azione che non abbia forma individuale, ecco che Leibniz si trova costretto a reintrodurre quelle forme sostanziali, intese come princìpi di vera unità, che aveva bandito dopo gli anni della prima formazione. Ed è proprio questo lo snodo decisivo: movimenti, azioni, forme individuali, sono tutti elementi tra di loro collegati, ma che vengono interamente risemantizzati e trattati con approcci epistemologici differenti: il mondo dei movimenti è lo spazio delle cause efficienti, il mondo delle forze è il regno delle potenze primitive o derivative, il mondo delle forme individuali è il regno delle ragioni finali. È come se ci fosse «lo spazio logico della finalità» e «lo spazio logico dei meccanismi»: comprendere il mondo naturale significa entrare in questa dimensione armonica che raccorda i princìpi del mondo aristotelico (actiones sunt suppositorum) con la strategia epistemologica propria del mondo moderno («i fenomeni vanno spiegati meccanicamente»).
Per certi versi, dunque, il naturalismo di Leibniz, prima del nostro, ha fatto i conti col problema della normatività (con quello che oggi denominiamo «placement problem») e per certi versi nella sua riflessione filosofica si dispiegano delle vere e proprie «placement strategies». Anzi, per dirla meglio, Leibniz è probabilmente il primo pensatore della tradizione occidentale che si confronta in senso pieno con una questione che da allora in poi non ci ha più abbandonato e che, anzi, ha dato al pensiero moderno la sua specifica curvatura epistemologica e ontologica. Nel mondo degli eventi naturali descritto dalle leggi della fisica chi è propriamente soggetto di azione? Questa è una delle più grandi domande filosofiche di Leibniz.
C’è un conflitto di paradigmi che prende forma: da una parte, c’è il lessico dell’ontologia aristotelica, fatto di sostanze individuali dotate di «nature», dall’altra c’è il lessico degli eventi e delle relazioni processuali (non esistono «cose», ma leggi). Al centro, però, si pone una strategia radicalmente nominalista: quello che davvero esiste non sono i processi o le relazioni, ma soltanto gli individui, con i loro stati percettivi e le loro dinamiche appetitive. Che è come dire, estremizzando per scopi di prima approssimazione: esiste la fisica, ma esistono anche le singole storie individuali. C’è il piano dei processi dotati di legalità universale e c’è il piano della normatività individuale: non riconoscere questa distinzione significa per Leibniz precludersi la possibilità di comprendere in profondità le ragioni del nostro mondo attuale.
Nell’universo dei corpi viventi, poi, spicca quel determinato tipo di individui che sono le persone (ovvero degli «spiriti», che a differenza degli organismi vegetali e animali sono dotati della capacità di dire «io»). E in questo caso la domanda si fa ancora più radicale, prendendo la forma della questione sollevata da Wilfrid Sellars nella nostra contemporaneità. E cioè: come si giustifica l’azione individuale in un mondo dominato da processi e che cosa significa essere persona in un universo di eventi che non è stato creato da noi? Ecco il cuore del placement problem leibniziano. Certo, Leibniz crede in Dio, obietterà chi conosce la sua filosofia in modo soltanto superficiale. Ma il punto è che per buona parte della sua esistenza, combattendo con tendenze di senso contrario, come potevano essere l’occasionalismo e lo spinozismo, Leibniz cerca esattamente di fare questo: di mettere a punto un sistema filosofico che riesca a difendere l’autonomia dell’individuo, delle sue azioni e delle sue storie personali, tanto dal potere de-personalizzante dell’epistemologia meccanicistica (naturalismo riduzionista) quanto da un determinismo di tipo teologico in cui tutto risulta giustificato su un piano più alto (metafisica supernaturalista). Che il tentativo sia riuscito è materia di discussione per filosofi e storici. Ma in questo caso l’esito dell’impresa è perfino meno importante rispetto alla complessità della sfida che Leibniz intraprende e che ha contribuito in maniera non marginale a formare quella certa immagine di sé che l’Uomo Moderno si è fabbricato e che da allora non smette di accompagnarci.
Qui di seguito sono raccolti una serie di saggi, pubblicati tra il 2004 e il 2017, che ruotano intorno a questo plesso di problemi. Il saggio di apertura (Il normativo e il naturale) è il più recente ma contiene le coordinate generali dell’intero volume. Ciascun capitolo, completamente revisionato rispetto alle versioni originali, è relativamente autonomo e può essere letto indipendentemente dagli altri. Il modo in cui i capitoli sono stati ordinati è stato pensato secondo una strategia a cerchi concentrici: si comincia da questioni di ordine generale e via via in ciascun capitolo si approfondiscono questioni sempre più delimitate e precise, con lo scopo di sciogliere il complesso dizionario tecnico impiegato da Leibniz. Questo non significa che sia stata abbandonata la chiarezza espositiva, almeno nelle intenzioni. Ma di tutto ciò giudicherà il lettore. L’ultimo capitolo (La tesi dello specchio. Solipsismo, prospettive private e olismo concettuale) è relativamente eccentrico rispetto agli altri, perché in esso si analizzano alcune caratteristiche di fondo della tarda ontologia leibniziana.
Desidero ringraziare il prof. Luca Illetterati che, da subito e con entusiasmo, ha sposato l’idea di questo progetto.
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