L’11 febbraio 2014 il prof. Gabriele Tomasi (Università degli Studi di Padova) e la dott.ssa Elisa Caldarola (Università degli Studi di Padova) sono intervenuti all’interno del secondo incontro del seminario “Temi e problemi della filosofia hegeliana: la filosofia dell’arte” del Corso di Dottorato in Filosofia dell’Università degli Studi di Padova.
Proponiamo un riassunto delle rispettive relazioni. Al termine del resoconto, riportiamo il PDF dell’intera seduta con inserita anche una traccia del dibattito.
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Introduzione all’Introduzione dell’Estetica di Hegel
Prof. Gabriele Tomasi
A partire dalla lettura del capitolo introduttivo dell’Estetica di Hegel, la relazione del prof. Tomasi si propone di gettare luce sul concetto hegeliano di opera d’arte, sulla distinzione del bello artistico dal bello naturale e sul ruolo che l’elemento sensibile gioca nell’estetica hegeliana. A questi tre affondi di carattere teoretico vengono premesse alcune considerazioni più generali relative all’Estetica [1] e alla sua genesi.
1. Il ruolo di Hotho nell’Estetica di Hegel
L’Estetica non è un’opera scritta o edita direttamente da Hegel, ma è stata assemblata e pubblicata successivamente alla sua morte. A compiere un simile lavoro editoriale (che vede la luce fra 1835 e il 1838 e poi, con alcune modifiche, nel 1842) è un allievo di Hegel, H.G. Hotho [2]. Quest’ultimo, basandosi principalmente su due quaderni manoscritti di Hegel e sugli appunti presi dagli uditori presenti alle sue lezioni di Berlino, compone un testo chiaro, molto ampio e dal forte impianto sistematico. Ma quanto c’è di Hotho in questo testo? Qual è il peso del suo intervento editoriale?
Per avere un’idea del ruolo giocato dal curatore dell’Estetica nello sviluppo e nella stesura di questo testo, può essere utile tenere presente le parole con cui Hotho presenta il suo lavoro nella Premessa alla prima edizione dell’opera hegeliana. Paragonandosi ad «un bravo e accorto restauratore di antiche pitture» [3], Hotho scrive:
«Gli obblighi imposti da una tale redazione si possono confrontare con le esigenze che dovrebbero soddisfare un bravo e accorto restauratore di antiche pitture. Essi consistono, da un lato, nell’immersione più oggettiva possibile nell’opera tramandata, nel suo spirito e nel suo modo di rappresentazione; dall’altro in un costante atteggiamento di modestia che si permette di completare solo il necessario per mantenere l’originale in tutti i casi in cui esso sia presente, ma si adopera, se la sorte lo concede, per elevare armonicamente quanto è stato aggiunto al valore di quel che si è mantenuto ed è autentico» [4].
Com’è caratteristico di un’epoca in cui il restauro è inteso in senso ricostruttivo, anche il lavoro editoriale di Hotho non vuole riprodurre fedelmente le fonti che aveva a disposizione (lacune, errori, contraddizioni e cadute di stile compresi), ma mira piuttosto a restituire il senso complessivo del pensiero hegeliano. Per raggiungere un simile obiettivo, Hotho rielabora, seppur con «la massima cura e con il timore di ritoccarli» [5], i testi hegeliani e i vari quaderni di appunti che aveva a disposizione, fondendo «i materiali più disparati e spesso contraddittori in un tutto il più possibile omogeneo» [6].
Relativamente a questo difficile e complesso lavoro compiuto da Hotho si possono notare due cose: la prima è il fatto che il lavoro di selezione e di riordino delle varie fonti è stato compiuto dal curatore con l’intento di far sì che l’estetica hegeliana mantenesse «il proprio posto» [7] fra le altre proposte estetiche dell’epoca, prime fra tutte quelle di F.W.J. Schelling e K.W.F. Solger. Il secondo aspetto che va considerato è invece legato alla necessaria attenzione e cautela che un testo così ampiamente rimaneggiato impone oggi al lettore dell’Estetica: lungi dal potersi lasciare suggestionare dalla bellezza o dalla forza di alcune espressioni o concetti, infatti, il lettore dell’edizione di Hotho deve sempre rimanere consapevole dei problemi di affidabilità filologica che il testo che ha di fronte presenta e della necessità di confrontare ciò che legge con le altre fonti del pensiero hegeliano che sono a nostra disposizione [8].
2. L’opera d’arte
Definito il tipo di lettura e le cautele interpretative che l’Estetica impone, il prof. Tomasi prosegue cercando di definire in modo più circostanziato il concetto di opera d’arte proposto da Hegel e i caratteri della scienza che se ne occupa [9]: il suo approccio deve essere di tipo empirico o metafisico?
«Se noi ora chiediamo quale dev’essere l’esame scientifico da intraprendere, ci imbattiamo di nuovo in due metodi opposti, di cui ognuno sembra escludere l’altro e non permettere che giungiamo a nessun vero risultato. Da un lato noi vediamo che la scienza dell’arte compie, rispetto alle reali opere dell’arte, uno sforzo per così dire solo estrinseco, ordinandole per la storia dell’arte, avanzando considerazioni sulle opere d’arte esistenti, o abbozzando teorie che dovrebbero fornire i punti di vista universali sia per la valutazione che per la produzione artistica. Dall’altro vediamo la scienza dell’arte abbandonarsi per sé in modo autonomo a pensare sul bello e produrre solo generalità, che non toccano l’opera d’arte nella sua peculiarità, produrre cioè un’astratta filosofia del bello» [10].
Sia l’approccio empirico sia quello metafisico vengono considerati criticamente da Hegel: il primo – e cioè quello proprio della storia dell’arte – perché è un approccio che si fonda su un criterio estrinseco, incapace di cogliere la verità dell’opera d’arte; il secondo – ovvero «la riflessione interamente teoretica che si preoccupa di conoscere da se stessa il bello come tale e di scrutarne l’idea» [11] – per il fatto di considerare l’idea di bellezza solo astrattamente, cosa che «non può soddisfarci»:
«Noi dobbiamo intendere quest’idea in maniera più profonda e concreta, poiché l’assenza di contenuto che è inerente all’idea platonica non soddisfa più i più ricchi bisogni filosofici del nostro spirito odierno» [12].
Superando l’opposizione presente fra questi due atteggiamenti, Hegel propone di considerare la scienza della bellezza come quella scienza che studia la potenza dell’idea di bellezza nel suo esplicarsi in determinazioni particolari, poiché solo così essa potrà dare conto del «concetto filosofico del bello», il quale, come si legge sempre nell’Introduzione,
«[…] deve contenere in sé mediati i due estremi dati, con l’unificare l’universalità metafisica con la determinatezza della particolarità reale. Solo così esso è concepito in sé e per sé nella sua verità» [13].
L’intento hegeliano non è dunque quello di svalutare il modo empirico di considerare il bello proprio della storia dell’arte, ma semmai quello di voler far confluire tale approccio – la cui peculiarità è quello di fornire alla filosofia «le prove e le conferme visibili dei cui particolari dettagli storici la filosofia non può occuparsi» – con un atteggiamento teoretico, altrimenti assente.
A partire da queste considerazioni sulla scientificità dell’arte, è possibile fare alcune osservazioni relative al metodo adottato da Hegel nelle sue lezioni. A prima vista, infatti, si potrebbe pensare che la prospettiva da cui Hegel guarda il mondo dell’arte parta da una comprensione concettuale del bello, rispetto alla quale la storia dell’arte sarebbe unicamente una conferma o una verifica empirica. D’altro canto, però, se si leggono le prime pagine delle lezioni del 1823 il punto di partenza sembra essere l’opposto e cioè l’evidenza empirica che «vi sono opere d’arte» [14]. Relativamente a questo ambiguità, la proposta del prof. Tomasi è quella di considerare questi due processi e prospettive come inseriti all’interno di una circolarità virtuosa: così come è possibile decifrare la storia dell’arte sulla base di una rappresentazione del concetto del «bello», altrettanto necessario è l’impiego dei dati storici per articolare il contenuto del concetto.
3. Bello naturale e bello artistico
«Il variopinto piumaggio degli uccelli splende anche se nessuno lo vede […]; il fiore del verbasco, che vive solo una notte, appassisce senza che nessuno l’abbia ammirato […]. Ma l’opera d’arte non è in sé così naturale, essa è essenzialmente una domanda, un discorso (Anrede) diretto al cuore che vi corrisponde, un appello agli animi e agli spiriti» [15].
La prima osservazione da fare relativamente alla concezione hegeliana del rapporto presente fra il bello naturale e il bello artistico è di carattere filologico e consiste nel ricordare che, a differenza di quanto accade nell’edizione dell’Estetica curata da Hotho [16], nei testi relativi ai singoli cicli di lezioni non vi è un intero capitolo riservato al bello naturale. Ciononosante, il discorso relativo alla bellezza naturale non può essere considerato un’invenzione di Hotho, ma anzi il suo rapporto con la bellezza artistica è decisivo per capire uno dei punti chiave della riflessione estetica hegeliana. A differenza del bello naturale, infatti, ciò che caratterizza il bello artistico è il fatto di essere un prodotto dello spirito o, come si legge nell’edizione curata da Hotho, una bellezza che è «generata e rigenerata dallo spirito» [17].
«Nella vita quotidiana si è abituati a parlare di un bel colore, di un bel cielo, di un bel fiume e inoltre di fiori belli; tuttavia, si può già senz’altro affermare che il bello artistico sta più in alto della natura […]. Infatti la bellezza artistica è la bellezza generata e rigenerata dallo spirito e, di quanto lo spirito e le sue produzioni stanno più in alto della natura e dei suoi fenomeni, di tanto il bello artistico è superiore alla bellezza della natura» [18].
Oltre a sottolineare la natura sempre anche spirituale dell’opera d’arte, quest’ultimo passo accenna anche ad un altro aspetto molto importante della concezione hegeliana dell’arte e cioè il fatto che per Hegel l’arte comprenda sempre sia una produzione sia una recezione: se da un lato, infatti, l’opera d’arte è un artefatto, un prodotto dell’uomo, dall’altro lo scopo per cui essa viene realizzata si compie solo nel momento in cui l’opera d’arte viere recepita da parte di altri soggetti. A differenza del bello naturale che «splende anche se nessuno lo vede» [19], la bellezza artistica è frutto di un desiderio espressivo e dunque, oltre ad essere sempre fatta per qualcuno, è anche tale da divenire ciò che è solo nel momento in cui viene recepita.
4. Il lato sensibile dell’opera d’arte
Uno dei principali pregi della riflessione estetica hegeliana è quello di fornire una definizione di opera d’arte che è al contempo intimamente legata all’importanza che l’arte ha per noi, alla funzione o al ruolo che essa gioca nelle nostre vite:
«Lo scopo generale dell’arte è questo: rendere intuibile ciò che si trova nello spirito umano in genere, ciò che l’uomo possiede di vero nel suo spirito, ciò che agita il cuore dell’uomo nella sua profondità, ciò che ha posto nello spirito umano. È questo, certamente, ciò che l’arte presenta ed essa lo presenta attraverso l’apparenza» [20].
«L’arte è chiamata a rivelare la verità in forma di raffigurazione artistica sensibile (in Form der sinnlichen Kunstgestaltung)» [21].
Ma come fa l’arte a realizzare un simile scopo? La qualità propria dell’arte – ciò che fin dal primo sguardo la distingue dalla religione e dalla filosofia – è il fatto di esprimere ciò che c’è di vero nel cuore dell’uomo per mezzo di un materiale sensibile [22]. La parola che Hegel usa per descrivere l’attività costitutiva dell’arte è «Darstellen» la quale, nel dizionario dei fratelli Grimm, viene spiegata come «porre di fronte agli occhi (vor die Augen bringen)» [23].
Ma cosa significa che l’arte rende intuibile ciò che c’è nel cuore dell’uomo? La materia di cui essa si serve è la stessa «natura», lo stesso «mondo esterno» che «rende allo spirito più faticoso conoscere se stesso» [24] di cui si parla nelle lezioni del 1823? La risposta a questa domanda è duplice. Da un lato, infatti, l’elemento sensibile proprio dell’arte non è più mera sensibilità, ma è sensibilità elevata a parvenza (Schein):
«L’arte è il termine medio fra il pensiero puro, il mondo sovrasensibile, e l’immediatezza, la sensazione presente» [25].
«Il sensibile è elevato ad apparenza e l’arte sta nel mezzo tra il sensibile come tale e il puro pensiero: il sensibile in lei non è l’immediato, in sé autonomo di ciò che è materiale, come pietra, pianta, vita organica, ma il sensibile sta per qualcosa di ideale (Ideell), anche se non l’astratto ideale (Ideell) del pensiero» [26].
D’altro canto, però, il «sensibile spiritualizzato» [27] di cui l’arte è fatta non è nemmeno di una specie diversa (o opportunamente selezionata) rispetto a quella che costituisce il «mondo esterno», ma anzi è proprio la stessa: il significato che l’artista esprime nelle opere d’arte, infatti, non è prima conosciuto dall’artista e poi posto in una materia sensibile ritenuta adatta al significato stesso, ma si forma contestualmente al prendere forma della materia sensibile stessa, la quale dunque non è diversa da quella che ci circonda ogni giorno [28]. La relazione fra significato e immagine sensibile nell’arte, dunque, è per Hegel da intendersi come una relazione di codeterminazione, tale per cui il significato contenuto in un’opera si produce attraverso il medium da cui è espresso:
«L’arte in generale consiste esattamente nella relazione, nell’affinità (Verwandtschaft [29]) e nella concreta compenetrazione reciproca (dem konkreten Ineinander) di significato e forma (Gestalt)» [30].
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Arthur C. Danto sulla fine dell’arte
Dott.ssa Elisa Caldarola
La relazione della dott.ssa Caldarola si sviluppa in due parti: nella prima viene considerata la definizione di opera d’arte proposta da Arthur Danto; nella seconda vengono analizzati la tesi dantiana di «fine dell’arte» e i punti di contatto che essa ha con la medesima tesi hegeliana.
1. La definizione di opera d’arte: aboutness ed embodiment
Una delle principali idee che Arthur Danto sviluppa all’interno del suo primo libro dedicato all’arte (The Transfiguration of the Commonplace, 1981) è quella secondo cui l’orizzonte artistico contemporaneo sarebbe caratterizzato dalla nascita di una nuova forma d’arte, mai vista prima e fondata sulla trasfigurazione di oggetti quotidiani in vere e proprie opere d’arte. Per cercare di definire al meglio le opere appartenenti a questa nuova forma artistica e le loro caratteristiche peculiari, Danto prende come esempio le Brillo Boxes di Andy Warhol, e cioè quelle scatole di compensato esposte per la prima volta nel 1964 e a prima vista identiche alle confezioni delle spugnette detergenti Brillo, all’epoca diffuse in ogni supermercato americano. Cosa rende le scatole di Warhol opere d’arte? Cosa le distingue da quelle del supermercato?
A. Le qualità sensibili
Secondo Danto, il criterio che permette di differenziare le Brillo Boxes di Warhol da quelle che si trovano nei supermercati non può fondarsi sulle qualità sensibili dei due tipi di scatole. Per quanto infatti le scatole di Warhol siano leggermente più grandi di quelle originali e siano fatte di un materiale diverso (di compensato anziché di cartone), tali differenze non si notano a prima vista e sono dunque del tutto trascurabili.
Proprio l’indipendenza del carattere artistico delle Brillo Boxes dalle loro qualità sensibili permette a Danto di definire il primo carattere peculiare delle opere d’arte appartenenti alla pop art: ciò che le scatole di Warhol ci mostrano, infatti, è che è possibile che si diano opere d’arte che non sono catalogabili come tali a partire unicamente dalla percezione sensibile che abbiamo di esse, ma che anzi possono essere comprese solo se ci si basa – oltre che sui sensi – anche su una comprensione di tipo concettuale [31].
B. Il significato
La seconda osservazione da fare relativamente alle Brillo Boxes emerge se le si confronta con altri ready-made come per esempio l’orinatoio di Marcel Duchamp (Fountain, 1917). A differenza di quanto era nelle intenzioni di quest’ultimo, il quale voleva soprattutto compiere un gesto provocatorio e di critica nei confronti delle istituzioni del mondo dell’arte, con le sue scatole Warhol – questa almeno è l’idea che ha Danto – non si limita allo scandalo, ma compie una più sottile operazione concettuale: le Brillo Boxes devono essere intese come una riflessione dell’artista sul mondo in cui si trovava a vivere; ciò di cui esse ci parlano, è la centralità che gli oggetti di consumo hanno assunto nell’epoca contemporanea [32].
A partire da queste considerazioni, è possibile definire quali siano le caratteristiche che Danto ritiene proprie di ogni opera d’arte e cioè:
– l’aboutness, cioè il fatto di essere a proposito di qualcosa e di avere un contenuto: a differenza delle scatole del supermercato, le Brillo Boxes di Warhol sono a proposito del consumo di massa e dell’estetizzazione dei prodotti di consumo come tratto distintivo di quell’epoca in cui sono state prodotte e “trasfigurate” come arte;
– l’embodiment, cioè il fatto di esprimere un significato in modo sensibile: a differenza di un articolo o di un saggio critico riguardanti le caratteristiche peculiari di una certa società, nelle Brillo boxes il significato è incorporato, coincide con l’oggetto stesso.
A partire da questa definizione, però, non è ancora chiaro in base a cosa le scatole del supermercato si differenzino da quelle di Warhol: perché queste ultime veicolano una riflessione sul mondo dell’epoca e le prime no? Secondo Danto, a fare la differenza fra i due tipi di scatole è il contesto nel quale esse sono inserite e questo perché è solo in certi contesti che alcuni aspetti di un oggetto divengono utilizzabili per esprimere un certo contenuto. Stando alla teoria di Danto, dunque:
– da un lato, le caratteristiche fisiche dell’oggetto che viene tramutato in un’opera d’arte non sono insignificati: secondo Danto, se Warhol tra i tanti oggetti di consumo ha scelto proprio le Brillo Boxes è perché esse hanno delle caratteristiche percettive ben definite e caratterizzate (colori sgargianti che rimandano a quelli della bandiera americana, grafica accattivante e d’impatto…), il che le rende più forti nel colpire l’occhio di chi guarda;
– dall’altro, se le Brillo Boxes di Warhol sono arte è perché in esse è stata compiuta un’operazione che non ha nulla a che fare con le qualità sensibili dell’opera stessa, ma che è anzi solamente concettuale e che resta del tutto inaccessibile se non viene spiegata e contestualizzata.
2. La fine dell’arte
Dopo aver delineato i punti principali della definizione di opera d’arte proposta da Danto, è possibile considerare più da vicino la sua teoria relativa alla fine dell’arte. Il punto di partenza di questa tesi è dato dall’evidente necessità che l’arte ha di ricorrere alla teoria e all’analisi concettuale per comprendere le sue stesse opere: come si è appena visto nel caso delle Brillo Boxes di Warhol, infatti, se si rimane fermi alla sola percezione sensibile tali opere sono di fatto indistinguibili dai corrispondenti oggetti di uso quotidiano.
Dal punto di vista di Danto, la necessità dell’arte di appoggiarsi all’analisi filosofica per spiegare se stessa ricorda da vicino la teoria sulla fine dell’arte elaborata da Hegel. Anche in Hegel, infatti, Danto vede teorizzato un passaggio di testimone dall’arte alla filosofia, il quale avverrebbe proprio nel momento in cui l’arte si autocomprende e capisce il suo destino.
Ciò che distingue la fine dell’arte pensata da Danto rispetto a quella hegeliana è in primo luogo il fatto che per Danto il morire dell’arte non comporta l’esaurimento o la mera ripetizione di forme espressive già conosciute, ma vede invece l’emergere di una nuova forma d’arte (la pop art, l’arte concettuale…), le cui opere non sono in nulla riconducibili a forme d’arte già viste e note. A differenza di quanto accade per Hegel – per il quale da un certo momento della storia in poi, l’arte, non essendo più capace di esprimere l’interezza dello spirito, si esaurisce e cessa di essere attuale [33] – per Danto la fine dell’arte coincide con quello che si potrebbe definire un guizzo di vitalità ovvero il darsi di un’arte post-storica, che comprende anche nuovi generi d’arte, come l’arte concettuale e le istallazioni. Un simile guizzo, però, non mitiga, ma anzi rende più traumatico il momento della fine dell’arte, così come l’hanno raccontata le varie storie dell’arte: la nuova forma artistica, infatti, è possibile solo in virtù di un dialogo strettissimo fra arte e filosofia, tanto che si può dire che secondo Danto, giunti alle opere della pop art, non c’è più arte senza filosofia.
Relativamente al necessario legame che l’arte contemporanea stringe con la filosofia, si deve notare un’ulteriore caratteristica e cioè il fatto che esso, a differenza di quanto accade prima del darsi di opere come le Brillo Boxes, si presenta ora come un legame che è sì massimamente presente, ma è anche massimamente libero: diversamente dall’artista medioevale o rinascimentale, infatti, l’artista pop è il primo a non dover più adeguare il suo lavoro ad una definizione di arte data dalla filosofia (ad esempio: nella concezione di Vasari l’arte è mimesis, per Croce l’arte è espressione) e a poter agire liberamente, al di fuori di qualsiasi definizione o finalità predefinita. Ciò che ha così luogo dopo le Brillo Boxes è per Danto un’arte pluralista, che non ha più un ruolo o un significato stabilito, ma in cui l’artista può fare ciò che vuole e il fruitore non può più rifarsi ad alcuna univoca narrazione della storia dell’arte per capirlo [34].
[1] G.W.F. Hegel, Ästhetik; trad. it. Estetica, trad. it. a cura di N. Merker, Einaudi, Torino 1997.
[2] H.G. Hotho è uno degli allievi di Hegel più attenti alle tematiche estetiche; nel 1829 diverrà a sua volta professore straordinario di estetica e storia dell’arte a Berlino.
[3] La premessa di H.G. Hotho alla prima edizione delle Vorlesungen über die Aesthetik (1835) è tradotta in italiano in G.W.F. Hegel, Introduzione all’«Estetica», trad. it. di P. Galimberti, Guerini Milano 1996, pp. 31-39; qui p. 32.
[8] Quali sono, in primo luogo, i paragrafi dell’Enciclopedia dedicati all’arte e le recenti pubblicazioni dei singoli quaderni di appunti relativi ai corsi tenuti da Hegel nel 1820/21, nel 1823, nel 1826 e – seppur solo parzialmente – nel 1828/29.
[9] Alla difesa della dignità dell’arte e del bello artistico come oggetto di scienza è dedicata la prima sezione dell’Introduzione, pp. 8-19.
[14] VÄ 1823, p. 9: «In questa trattazione, nella quale noi prendiamo questa scienza [estetica] al di fuori dell’intero, noi iniziamo immediatamente, […] iniziamo in modo immediato, e non possediamo per il momento nient’altro che la rappresentazione, che vi sono opere d’arte».
[17] Ivi, p. 6: «Infatti la bellezza artistica è la bellezza generata e rigenerata dallo spirito, e, di quanto lo spirito e le sue produzioni stanno più in alto della natura e dei suoi fenomeni, di tanto il bello artistico è superiore alla bellezza della natura».
[22] VÄ 1823, p. 31: «Se ora si vuol stabilire uno scopo finale dell’opera d’arte, esso consiste in ciò: rivelare la verità, rappresentare quel che si agita nel petto umano, e tutto ciò per via di immagini, in maniera concreta. Questo scopo finale l’arte lo ha in comune con le storia, la religione, e altro».
[23] Anche Vorstellen ha questo significato, ma solo nel caso in cui venga utilizzato come sinonimo di Darstellen.
[26] Ivi, pp. 22-23. Hegel prosegue dicendo che «l’arte dunque ha per materiale un sensibile spiritualizzato ovvero uno spirituale sensibilizzato. Il sensibile entra nell’arte come ideale (Ideell), come astrattamente sensibile».
[28] Cfr. ad esempio quanto si legge relativamente alla materia propria dell’ideale nelle lezioni del 1823, pp. 95-112.
[31] Le opere della pop art, dunque, si pongono al di fuori della classificazione storica dei diversi generi artistici, nella quale eravamo in grado di isolare le opere d’arte come appartenenti a specifici generi artistici unicamente a partire dalle loro caratteristiche sensibili.
[32] Più in particolare, esponendo opere identiche alle scatole delle spugnette abrasive, Warhol ci sta parlando di un mondo in cui il consumo ha raggiunto un livello così raffinato da incorporare degli aspetti estetici anche nelle sue manifestazioni più basse, un mondo in cui persino le scatole per il sapone hanno un aspetto attraente.
[33] G.W.F. Hegel, Ästhetik; trad. it. Estetica, trad. it. a cura di N. Merker, Einaudi, Torino 1997, p. 16: «Per tutti questi riguardi l’arte, dal lato della sua suprema destinazione, è e rimane per noi un passato. […] Ciò che in noi ora è suscitato dalle opere d’arte è, oltre il godimento immediato, anche il nostro giudizio, poiché noi ora sottoponiamo alla nostra meditazione il contenuto, i mezzi di manifestazione dell’opera d’arte e l’appropriatezza o meno di entrambi. La scienza dell’arte è perciò nel nostro tempo un bisogno ancora maggiore che nelle epoche in cui l’arte procurava già di per sé un completo soddisfacimento. L’arte ci invita alla meditazione, ma non allo scopo di ricrerare l’arte, bensì per conoscere scientificamente che cosa sia l’arte».
[34] Questo smentisce anche l’idea molto diffusa che l’arte contemporanea sia da intendersi fondamentalmente come schiacciata sul paradigma della comunicazione: ogni volta che viene individuata una narrazione unica, è già stato commesso un fraintendimento perché dopo Brillo Box non si può più leggere l’arte come una storia guidata da un telos unico.
by Matilde Bonato
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Di seguito il documento PDF contenente il resoconto dell’intera seduta
PDF – Seminario Hegel Padova 11-02-2014 Relazioni prof. Tomasi e dott.ssa Caldarola