Siamo lieti di proporre la recensione di Luca Illetterati, apparsa su «Alias», inserto culturale de il manifesto, del 12 aprile, al libro di Jürgen Habermas, Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia (Laterza 2015).
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In un recente episodio di House of Cards, Frank Underwood, il cinico politico americano interpretato da Kevin Spacey, divenuto nella terza serie Presidente degli Stati Uniti, entra in una chiesa dove viene lasciato solo a riflettere e rivolgendosi alla statua di un Gesù in croce, sputa sull’immagine sacra. Subito dopo con un fazzoletto cerca di pulirla (non per pentimento, solo per evitare di lasciare tracce imbarazzanti), ma la statua gli cade addosso rovinosamente e va in pezzi. L’episodio ha fatto molto discutere. Alcune comunità cristiane americane hanno protestato e alcuni commentatori, anche in Italia, si sono chiesti cosa sarebbe accaduto se Underwood avesse fatto lo stesso gesto nei confronti di un simbolo islamico. In generale la cosa non ha prodotto però, da noi, reazioni particolarmente scandalizzate. Forse perché la serie va in onda su Sky ed è dunque appannaggio di una nicchia e un’élite socio-economica tutto sommato ancora marginale, forse perché il cattolicesimo, sviluppatosi dentro le diatribe dell’iconoclastia, è piuttosto vaccinato rispetto all’uso e all’abuso dei simboli sacri, forse perché all’interno di società tendenzialmente secolarizzate c’è una distinzione piuttosto netta tra il disagio e persino lo scandalo che può provare il fedele e l’indifferenza dell’ateo o dell’agnostico.
Di certo il gesto di Frank Underwood è un gesto evidentemente religioso, che assume senso solo all’interno di una cornice religiosa e non a caso trova la sua scena all’interno di quel miscuglio di religiosità e pratiche secolari che caratterizza gli USA, la cui società è stata spesso descritta come una sorta di eccezione al processo di modernizzazione e secolarizzazione che ha coinvolto invece soprattutto le società europee, l’Australia e il Canada. Ma in qualche modo, al di là della specificità contestuale, quel gesto è una rappresentazione spettacolare e per molti versi perfino caricaturale del rapporto niente affatto risolto o dissolto fra religione e politica, fra agire pubblico e mentalità religiosa, fra potere politico, secolare e laico, e società solo in parte secolarizzate e attraversate da flussi di fedi, invece, sempre più plurali e diversificate.
Su questo complesso rapporto è centrata l’analisi dell’ultimo lavoro di Jürgen Habermas, tradotto ora in italiano Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia, trad. di L. Ceppa, Laterza 2015. Al cuore delle considerazioni di Habermas, che al solito si muove con maestria incrociando il piano schiettamente filosofico con quello sociologico, storico, politologico e in questo caso anche antropologico e biologico, sta ciò che lui stesso indica come la sorprendente contemporaneità della religione. Il fatto cioè che la religione, contrariamente rispetto a quanto pronosticato da alcune teorie classiche della modernizzazione e della secolarizzazione, non è affatto un fenomeno del passato, o un rimasuglio di primitivismo arcaico che sopravvive nel presente: è invece una delle figure del tempo presente, peraltro quanto mai vitale e determinante nelle nostre pratiche di vita. Anzi, secondo Habermas, uno dei rischi delle società contemporanee e soprattutto delle società europee e occidentali è quello di non comprendere la complessità che la religione incarna e con ciò di trascurare gli elementi di opportunità (in questo sta forse l’elemento di maggiore originalità dell’indirizzo habermasiano di questi ultimi anni) che le tradizioni religiose rappresentano per lo sviluppo di una razionalità comunicativa, di carattere pubblico. Habermas cerca in questo modo di insinuarsi fra una filosofia scientisticamente orientata, che tende a ridurre la complessità della vita degli uomini dentro schemi di naturalismo estremo e una filosofia delle visioni del mondo di stampo postmodernistico che considera le diverse narrazioni religiose della realtà come non solo tutte legittime all’interno degli specifici giochi linguistici che ciascuna incarna, ma anche strutturalmente impermeabili l’una all’altra e dunque impossibilitate ad apprendere reciprocamente e a mettersi in discussione attraverso reciproci rapporti di influenza. Si badi, non si tratta di mettere in questione il carattere secolare del pensiero post-metafisico, ovvero di quella razionalità che accetta di essere fallibile e che si gioca fondamentalmente nell’agone della comunicazione discorsiva a cui Habermas ha dedicato tutta la sua produzione dopo La teoria dell’agire comunicativo (Il Mulino 1986) e dopo il grande confronto con le pretese dissoluzioni del discorso moderno ad opera delle filosofie di stampo post-modernistico derivate dall’heideggerismo e dal post-strutturalismo francese (Il discorso filosofico della modernità, Laterza 1997). Ciò che si tratta di comprendere è che questo carattere secolare non può tradursi in indifferenza e altezzoso distacco rispetto alle religioni e ai loro contenuti. Anzi, compito del pensiero post-metafisico – che in quanto tale non è più un pensiero concorrenziale con le grandi visioni del mondo di carattere religioso – è semmai quello di tradurre concettualmente quelli che Habermas chiama, con espressione piuttosto ostica, i potenziali semantici non ancora sfruttati delle tradizioni religiose, ovvero di inserire attraverso questa traduzione i coaguli di significato che l’esperienza religiosa elabora all’interno del gioco discorsivo delle ragioni pubbliche. La mossa habermasiana è una mossa (anche se non esplicitamente dichiarata) classicamente hegeliana. Per Hegel, infatti, compito della filosofia è quello di tradurre le rappresentazioni in concetti, ovvero di trasferire quelle nozioni non chiarite e giustificate che attraversano le nostre pratiche discorsive quotidiane all’interno della sfera del concetto, ovvero all’interno di un processo di giustificazione che tende a togliere a queste nozioni (che sono non di rado anche per Hegel derivanti dalla rappresentazione religiosa) il carattere di mero presupposto o di verità dogmatica e perciò indiscutibile. Non accollarsi questo complesso lavoro di traduzione, significa, per Habermas, privarsi dei contenuti razionali che nella storia e nella genealogia dello spirito sono sorti all’interno di quelle prime forme di socializzazione del discorso che sono le pratiche rituali e cultuali. A una genealogia della ragione comunicativa è dedicata la prima parte del volume, nella quale Habermas, confrontandosi con studi di carattere antropologico e biologico, cerca di mostrare come il mondo della vita, ovvero quel mondo fatto di significati, tradizioni, pratiche sociali e istituzioni dentro al quale noi già da sempre ci muoviamo, sia un mondo di ragioni incarnate simbolicamente, nel quale il rito e dunque la dimensione comunitaria del culto ha avuto un ruolo evolutivo fondamentale. Ruolo che non si tratta semplicemente di riconoscere come una alterità da cui si proviene, ma come qualcosa di istitutivo e determinante le nostre stesse pratiche razionali. I potenziali semantici della religione, che la filosofia è chiamata a tradurre per porli all’attenzione delle ragioni pubbliche, sono appunto quei contenuti di pratiche sociali fondamentali nello sviluppo delle comunità umane che si sono depositati in forme simboliche e che una volta tradotti possono essere riconosciuti razionalmente anche al di fuori della specifica cornice religiosa o rituale che li ha connotati. L’idea di fondo di Habermas non è banalmente e semplicisticamente traducibile nella difesa di un concetto di razionalità tollerante e aperto. Alla ragione laicista e secolarista – termini che egli distingue in modo piuttosto rigoroso da secolare e laico, attributi che la razionalità deve necessariamente possedere se vuole svolgere una qualche funzione di mediazione e traduzione – Habermas intende mostrare come un intero vocabolario che ha a che fare con la comprensione che noi abbiamo di noi stessi e del nostro ruolo nel mondo si sviluppi a partire da istanze religiose: libertà, eguaglianza, solidarietà sono concetti che entrano nella vita degli uomini attraverso la dimensione simbolica comunitaria del rito, che svolge così una funzione in qualche modo anche di resistenza rispetto a pratiche puramente egoistiche (e naturali) di sopravvivenza individuale.
Lo stato secolare, secondo Habermas è certamente una delle grandi conquiste della modernità. Ma sarebbe un errore pensare che a stati secolari corrispondano società del tutto secolarizzate. Ciò con cui siamo chiamati oggi a fare i conti è invece la necessità di difendere la secolarità delle istituzioni riconoscendo a un tempo libertà di azione pubblica alle diverse immagini del mondo che sono attive all’interno delle società post-secolari. Una libertà di azione che deve però accogliere quella che Habermas chiama la clausola di traduzione: la possibilità di vedere riconosciuti contenuti specifici della semantica religiosa all’interno della ragione pubblica implica, infatti, che questi contenuti possano essere tradotti all’interno di una grammatica e di una sintassi tendenzialmente universali, dunque svincolate da ogni tradizione specifica. E qui forse sta il problema di fondo dell’impostazione pur rigorosa e mai banale di Habermas: siamo sicuri che le immagini del mondo religiose siano disposte ad accogliere sempre fino in fondo la clausola di traduzione? L’accettazione di questa clausola da parte delle comunità religiose non implica in qualche modo lo scioglimento della sostanza che tiene insieme e identifica quelle comunità? E più radicalmente ancora: siamo sicuri di poter tradurre contenuti determinanti e decisivi delle diverse tradizioni religiose all’interno di una lingua universale che trascende i confini delle singole tradizioni? Habermas risponderebbe, probabilmente, che questa traduzione è un compito e un processo e non certo un dato o comunque qualcosa di meccanico e immediato. Un compito e un processo che richiedono certamente lavoro, conflitto, mediazione. E insieme a ciò, oltre che una certa fede nella razionalità, anche una disponibilità post-illumistica (dove il post non indica affatto una rinuncia alle istanze razionali) a poter essere modificati e trasformati da pratiche sociali non ancora elaborate sul piano della razionalità discorsiva pubblica.
Luca Illetterati