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Classical german philosophy. University of Padova research group

Book review: Terry Pinkard, “Hegel’s Naturalism. Mind, Nature and the Final Ends of Life” (Arianna Longo)

Proponiamo la recensione del testo di Terry Pinkard, Hegel’s Naturalism. Mind, Nature and the Final Ends of Life, scritta da Arianna Longo e apparsa sull’ultimo numero di Universa. Recensioni di filosofia (Anno 5, Vol. 2 – 2016). Il testo PDF della recensione è disponibile qui.


Terry Pinkard, Hegel’s Naturalism. Mind, Nature and the Final Ends of Life, Oxford University Press, New York, 2012, pp. 213, € 160.29, ISBN 9780199860791


Arianna Longo, Università degli Studi di Padova

 

Secondo T. Pinkard, il tratto specifico dell’idealismo hegeliano, vale a dire il carattere speculativo del suo pensiero, emergerebbe proprio attraverso la sua concezione della natura. Di certo, non perché la Naturphilosophie, da sola, enuclei il senso dell’intero sistema, bensì per il ruolo che essa riveste nella comprensione e nella progressiva determinazione dell’agire umano come tale. Questa è la tesi che P. intende dimostrare nel libro Hegel’s Naturalism. Mind, Nature and the Final Ends of Life: secondo l’A., la libertà umana che si dispiega come Geist risulta chiara soltanto alla luce di una considerazione unitaria della realtà, dunque in una prospettiva congiunta delle due sfere in cui essa si articola. In altre parole, per cogliere in modo speculativo lo sviluppo immanente alle azioni umane non ci si può attenere al solo orizzonte storico, ma è necessario prendere le mosse dal punto di tangenza tra lo spirito e la natura, o meglio: occorre prendere in esame l’emergenza dello spirito dalla natura e il suo primo specificarsi in rapporto a essa.

Nei primi due capitoli l’A. si sofferma sui punti salienti della filosofia hegeliana della natura, ivi qualificata come un “naturalismo aristotelico disincantato”. L’incanto che essa ha il merito di dissolvere è la pretesa di scorgere nella natura l’espressione di una finalità divina o, più laicamente, un modello di perfezione a cui l’umano dovrebbe ispirarsi nel realizzare i propri scopi. Ciò che più importa, però, è che a un tale sguardo disincantato sulla natura diviene visibile il carattere peculiare dell’umano: mentre la prima non è in grado di organizzare l’intero che essa è in vista di fini liberamente posti, il secondo, al contrario, è l’unica forma di vita che sa di avere una struttura funzionale autonoma grazie alla quale può tendere al meglio. L’unità di autocoscienza e organismo determina il tratto precipuo della teleologia dell’umano, cioè il suo tendere a scopi irriducibili alla sola autoconservazione e riproduzione di una realtà data; i “self-interpreting animals” seguono una normatività diversa da quella degli altri esseri viventi e del loro ambiente, poiché in loro si forma il concetto di possibilità non soltanto in relazione ai fini da perseguire, ma anche in relazione al loro stesso essere. Proprio in virtù di ciò l’umano si distingue dall’animale: la sua soggettività non ha un analogo nel vivente perché solo nell’umano la relazione a sé non delinea i contorni di una semplice interiorità – l’anima senziente –, bensì traccia un’unità riflessiva, cioè definisce un’esistenza che assume se stessa come problema. In tal modo, dalla natura emerge la libertà come Beisichsein, una concezione di cui P. individua la derivazione dall’azione volontaria aristotelica: in essa il principio del movimento è interno all’agente, cosicché egli è all’origine del proprio agire, dunque l’azione non è l’effetto di una causa esterna. Tuttavia, secondo P., questa finalità interna si sgancerebbe dalla “metafisica sostanzialista ed essenzialistica di potenza e atto” di Aristotele (p.31), per tradursi – in termini hegeliani – nel movimento attraverso cui il concetto si determina come wirklich. Pertanto, la suddetta unità riflessiva è, da una parte, ciò che trasforma la sostanza aristotelica in soggetto, dall’altra, ciò che sancisce la differenza tra l’essere umano e l’animale: diversamente da quest’ultimo, infatti, il primo ha una consapevolezza (awareness) di sé più articolata della semplice sensazione, cioè una coscienza di sé e dell’oggetto che si traduce in un “normative stance” rispetto alla natura (p.47). La capacità di istituire una norma e di agire conformemente a essa non si sviluppa a partire da un dato naturale, ma da una distinzione – quella tra soggetto e oggetto, interno ed esterno – posta dall’autocoscienza nella natura. Senonché tale distinzione è all’origine di una conflittualità interna al soggetto stesso, che esplode in seno alla sfera intersoggettiva: se la linea di demarcazione tra i distinti non è empirica, ma razionale, il desiderio che orienta l’agire umano non è – come per l’animale – dominato dall’istinto, bensì sottoposto all’esame della ragione. In vista di quale fine si dovrebbe intraprendere l’azione? E, soprattutto, perché quel fine andrebbe perseguito? L’agire umano è strutturato dal connubio di desiderio e ragione, ma la ragione – che opera uno scarto rispetto al semplice bisogno inscritto nella natura dell’organismo – emerge concretamente proprio dallo scontro tra soggetti agenti in un quadro naturale, ovvero segnato dall’immediatezza: questo, almeno, quello che si evincerebbe dalla dialettica tra il servo e il signore. Il rapporto tra le due suddette autocoscienze, esposto da Hegel nella Fenomenologia dello spirito, è ciò a cui l’A. sceglie di volgere lo sguardo per cogliere il delicatissimo passaggio dall’organico allo spirituale, dalla natura alla storia, dalla necessità alla libertà.

Come si chiarisce nel terzo capitolo, la pratica del domandare e offrire ragioni, il regno della conoscenza concettuale o della libertà, consiste nel ricercare la giustificazione dei fini perseguiti. La ragione ingiunge di ricercare il sommo bene, ciò che – come insegna Aristotele – è desiderato per se stesso e non in vista di altro; essa è il principio della normatività, il cui scopo finale è la piena armonia tra interno ed esterno. Per P., Hegel individuerebbe lo scopo finale (o il “self-sufficient good”) dell’agire umano nell’essere “at one with himself” (il suddetto Beisichsein), cioè in un desiderio di libertà innervato dalla razionalità interna allo spazio sociale (p.90, p.107). Tra stato di natura e stato politico vi sarebbe, dunque, questa differenza fondamentale: l’agire umano è davvero libero solo se si esplica nel secondo, ossia solo se stabilisce da sé gli obiettivi da raggiungere ed è effettivamente in grado di realizzarli, avendo mutato le stesse condizioni del proprio operare. La “natura” della prassi è proprio quella di creare condizioni dell’agire che non sussistono nel mondo naturale (p.95), ma che sono necessarie per rendere effettivi gli scopi promossi dalla ragione. Realizzare il concetto vuol dire tendere a un fine deliberato razionalmente, quindi non imposto dall’interesse particolare di un’autorità esterna, né prescritto dalla natura con l’inchiostro indelebile del codice genetico o la forza cieca dell’istinto. Detto altrimenti, estendere le possibilità dell’agire è il correlato dell’autolegislazione del soggetto: se in ciò si può scorgere una chiara influenza kantiana, P. rileva la presunta cifra distintiva di Hegel nella rimozione dell’ultimo residuo di una “metaphysical self-causality” (p.97, p.103) che precluderebbe, nella sua alterità radicale, l’effettiva realizzazione dei fini. Per quanto il soggetto trascendentale sia contrapposto alla sostanza aristotelica, il suddetto concetto di causalità è la radice comune a entrambi: “la facoltà di dare spontaneamente inizio a una serie di cose o stati successivi” (KrV, 311, 20) non è poi così dissimile dal motore immobile che lo Stagirita definisce “qualcosa che muova senza esser mosso e che sia sostanza eterna e atto” (Met., Λ, 7, 1072b, 25). Per l’A, l’operazione concettuale hegeliana consisterebbe nell’estirpare tale radice comune a entrambe le causalità, il cui carattere “metafisico” è qui assunto in un’accezione puramente negativa. Ma in tal modo, assumendo cioè la linea interpretativa di una certa tradizione naturalistica americana – quella che fa di Hegel un pensatore marcatamente anti-metafisico – P. non sembra comprendere il senso della logica speculativa.

Nel quarto e quinto capitolo l’A. si attiene ad alcuni passi della Fenomenologia dello spirito per esporre il progresso della libertà umana nella concretezza del mondo storico. Nello specifico, egli si sofferma sulle forme di vita della polis greca, dell’impero romano e dell’età dei Lumi.

Il sesto capitolo è incentrato, invece, sulle forme di alienazione nell’età moderna: l’A. passa in rassegna alcuni tra i principali soggetti politici esaminati da H. nei Lineamenti di filosofia del diritto – la società civile, la burocrazia e lo stato-nazione – evidenziando i problemi insorgenti nella realizzazione concreta della libertà – uno tra tutti, la legittimazione del potere. La posizione assunta da P. in merito al rapporto tra le due sfere d’indagine della Realphilosophie viene qui articolata attraverso il concetto di alienazione e quello di organismo. Anzitutto, si fa notare che la rivoluzione francese scoppiò nel momento in cui l’alienazione del Terzo stato giunse ai suoi massimi livelli; un’alienazione, quella, che si poté consolidare attraverso la legittimazione dei rispettivi privilegi clericali e nobiliari da Dio e dalla natura. Di conseguenza, l’unità “organica” secondo cui Hegel ripensa la vita politica moderna non avrebbe nulla a che vedere con un ordine divino o naturale, bensì con l’unità del concetto. Tra l’olismo della natura e quello della ragione non vi sarebbe più che una semplice analogia, al punto che il secondo “does not really merit the title «organic» at all”, ossia – per essere più espliciti – “it is now «the concept» and not mere «nature» that sets our ends, and this sense is deeply historical, a result of who «we» have collectively come to be” (pp.151-52).

Nel settimo e ultimo capitolo, l’A. esplicita la tesi di fondo del testo: per Hegel, lo scopo finale dell’essere umano è quello di essere presso di sé, vale a dire il sapere se stesso come libero e l’agire secondo libertà; l’unità di razionale e reale è il modo in cui pensare l’umanità intera che, in quanto libera, diventa fine a se stessa (Endzweck). Quale rapporto sussiste tra questo scopo finale, di cui P. ribadisce la cifra sociale e storica, e la sfera naturale? Contrariamente ad altri interpreti statunitensi come Robert Pippin, P. non crede che – in un’ottica hegeliana – ci si possa “lasciare la natura alle spalle”, o addirittura assumere un atteggiamento conflittuale nei confronti di essa: se il propulsore della storia è l’autocoscienza, non si può cancellare il fatto che quest’ultima emerge dalla vita, e che la vita emerge a sua volta dalla natura. Comprendere e realizzare se stessi in quanto liberi – lo sviluppo dell’umanità come Geistigkeit – vuol dire anzitutto divenire consapevoli di ciò che si è, ossia un essere vivente per il quale l’esistenza diviene un problema. Il passaggio dalla natura alla seconda natura si compie proprio mediante la messa in discussione della vita che tutte le altre forme naturali e animali si limitano a riprodurre. Ma proprio l’unità tra le due sfere della realtà – la natura e lo spirito – rivela, in ciò, il suo carattere asimmetrico; detto altrimenti, il passaggio dalla prima alla seconda natura non è pensabile come un salto nel vuoto, ma neppure come una progressione lineare. Proprio il fatto di avere uno scopo finale sancisce la radicale differenza dello spirito dalla natura, la quale – al contrario – non ha alcuno scopo. Lo spirito è proteso a realizzare una versione migliore di se stesso, mentre la natura è ripiegata sulla riproduzione di ciò che è. Per questa ragione, la natura rimane irrimediabilmente “sorda” (p.182) e “silente” (p. 195) rispetto alla libertà, cioè al compito che lo spirito si propone di realizzare.

Nonostante questi ultimi punti siano condivisibili, non ci si può esimere dal rilevare gli elementi più critici del testo. In primo luogo, non è possibile afferrare il senso di un presunto “naturalismo” hegeliano senza degnare di uno sguardo il luogo in cui quel pensiero delinea il quadro teorico dell’intera filosofia della natura, ovvero i capitoli della Scienza della logica dedicati al meccanismo, al chimismo, alla teleologia e all’idea della vita (cfr. L. Illetterati, 1995). In secondo luogo, se glissare sulla polemica hegeliana con la filosofia romantica della natura denota una spiacevole, seppur perdonabile mancanza, ci si aspetterebbe che il confronto con Aristotele – un punto di riferimento costante di P. – non fosse condotto in modo talora grossolano: se in sede conclusiva l’A. si spinge a sostenere che in Hegel non vi è traccia di una teleologia naturale, né di una storica, è a causa del fraintendimento del suo rapporto al pensiero dello Stagirita: a ben vedere, Hegel non solo non abbandona la metafisica “sostanzialista” di potenza e atto, ma essa è anzi il termine teoretico da contrapporre al meccanicismo newtoniano, il quale, in assenza di una finalità interna alla natura, rischia di reintrodurre – in quest’ultima – una forma di trascendenza divina (cfr. A. Ferrarin, 2004). Pertanto, la metafisica aristotelica di potenza e atto svolge un ruolo fondamentale nel pensiero hegeliano, e precisamente allo scopo di promuovere quella libertà di cui lo studioso statunitense traccia i contorni.

Infine, il riferimento incrociato alla Fenomenologia e all’Enciclopedia nella trattazione della natura dei primi due capitoli rischia di causare una sovrapposizione tra due diversi concetti di esteriorità, rispettivamente quello della coscienza nei confronti del suo oggetto e quello dell’idea nel rapporto a se stessa. Questo rischio lascia intravedere, inoltre, il vero punto scabroso dell’analisi di P., vale a dire il mancato riferimento alla dottrina dell’idea, che è invece, a parere di chi scrive, imprescindibile allo scopo di dimostrare qualsiasi tesi circa il rapporto tra natura e spirito – ovvero tra “l’idea nel suo alienarsi da sé” e “l’idea che dal suo alienamento (Anderssein) ritorna in sé” (Enz., §18). E in ultima analisi, se l’A. omette l’idea dalla sua argomentazione, è perché sceglie di ignorare una delle tre parti dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, ossia la Logica: una scelta, questa, alquanto discutibile, poiché nel terzo dei sillogismi finali dell’Enciclopedia – in quello in cui, a detta dello stesso Hegel, viene esposta “l’idea della filosofia” (Enz., §577) – a fungere da termine medio tra lo spirito e la natura è proprio l’idea assoluta della logica.


Bibliografia

A. Ferrarin, Hegel and Aristotle, Cambridge University Press, Cambridge, 2004.

L. Illetterati, Natura e ragione. Sullo sviluppo dell’idea di natura in Hegel, Verifiche, Trento, 1995.

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