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Classical german philosophy. University of Padova research group

Book Review: Mariannina Failla (a cura di), “Leggere il presente. Questioni kantiane” (Attilio Bragantini)

Proponiamo la recensione del testo a cura di Mariannina Failla, Leggere il presente. Questioni kantiane, scritta da Attilio Bragantini e apparsa sull’ultimo numero di Universa. Recensioni filosofia (Anno 5, Vol. 2 – 2016). Il testo PDF della recensione è disponibile qui.


Mariannina Failla (a cura di), Leggere il presente. Questioni kantiane, Carocci, 2014, pp. 198,
22, ISBN 9788843071623


Attilio Bragantini, Università degli Studi di Padova

 

La raccolta di saggi intende offrire al lettore una panoramica attuale degli studi kantiani, facendo interagire la riflessione del filosofo di Königsberg con l’apporto critico di autori del pensiero contemporaneo. Il principale focus dell’opera è però la discussione della terza antinomia (il contrasto tra la causalità secondo leggi di natura e la causalità mediante libertà), che com’è noto costituisce un rilevante passaggio della dialettica trascendentale della ragione pura (AA III, pp.308-313). Così, le tre sezioni in cui è suddivisa la silloge scandiscono una trattazione che, dall’iniziale attenzione esclusiva per la lezione kantiana si apre in un secondo tempo alla comprensione del summenzionato focus tematico da parte di autori in diversa misura postkantiani, per porre infine al pensiero di Kant alcune domande ulteriori, proprie alla filosofia contemporanea.

Entrando nello specifico, la prima sezione è inaugurata da un saggio di C. Fabbrizi, dedicato a cogliere il ruolo della psicologia nel sistema di metafisica di Kant. Questi fonda la psicologia razionale, come scienza a priori, sull’io penso (un cogito che non implica però la sostanzialità dell’anima), e in tal modo riduce l’estensione della prima, rispetto al sistema wolffiano, intendendola non come dottrina ma come disciplina, che limita le pretese speculative e deve servire ad un uso pratico. La riduzione della psicologia razionale va dunque a vantaggio della psicologia empirica, che Kant riformula come antropologia (basata sulla connessione di anima e corpo), escludendola così, in quanto a posteriori, dal sistema di metafisica.

L’articolo di K. Düsing si concentra sulla terza antinomia. Sottolineando il suo carattere cosmologico, l’A. analizza nel dettaglio le argomentazioni fornite da Kant tanto per la tesi quanto nell’antitesi, evidenziandone il metodo apagogico (confutazione dell’opposto). La prima afferma la causalità per libertà, in quanto l’impossibilità di pensare una causa prima spontanea nel mondo riduce ad infinitum la correlativa serie di cause ed effetti senza un primum. L’antitesi, al contrario, nega vi sia una causalità ulteriore rispetto a quella naturale, in quanto non è possibile una libertà nel mondo (come sarebbe quella umana) che non sia perciò stesso avvinta nella concatenazione causale naturale. Ma anche una spontaneità fuori dal mondo (divina) risulterebbe così infondata. La soluzione dell’antinomia, non è quindi ravvisabile nel campo dell’esperienza, in cui domina la causalità naturale, ma, fuoriuscendo dalle forme di spazio e tempo, in quello del noumeno: la libertà è pensare come causalità intellegibile. Con ciò però Kant non può risolvere teoreticamente il problema dell’azione umana, mantenendone la libertà (intellegibile) nel mondo (sensibile). Com’è noto, la questione può essere posta solo rinviando all’ambito pratico.

Il contributo di F. Toto interroga la terza e quarta antinomia seguendo il filo del concetto di contingenza. Se l’una afferma la possibilità di una causalità mediante libertà sottratta al determinismo naturale, l’altra oppone l’idea cosmologica di necessità a quella di contingenza. In particolare, Kant distingue tra una contingenza pura (dipendente da concetti dell’intelletto) e empirica (da cause nella serie temporale). Secondo l’A. tale contrapposizione risulta vaga e non approfondita anche nei successivi passaggi della prima critica. Tale reticenza nasconderebbe “l’impossibilità di un uso empirico e conoscitivo della categoria di contingenza propriamente intesa” (p.56). La sua pensabilità è resa possibile da Kant tramite uno slittamento del concetto di contingenza verso quello di condizionato (effetto di una causa diversa da sé). La contingenza entra infine nella soluzione delle antinomie dinamiche: la soluzione di Kant al dissidio libertà-necessità che esse pongono è dato dallo sdoppiamento dei piani, tra fenomeno (causalità naturale, necessità) e noumeno (libertà).

La seconda sezione comincia con un articolo di P. Rebernik sulla lettura heideggeriana di Kant. Riportando il Kantbuch e il corso dell’estate 1930 Vom Wesen der menschlichen Freiheit del filosofo di Meßkirch alle questioni sollevate nel celebre dibattito di Davos con Cassirer del ’29, l’A. mostra il ruolo cruciale giocato dall’interpretazione di Kant nel progetto heideggeriano di «distruzione» della storia dell’ontologia. L’articolo si sofferma in particolare sulla questione della libertà come causalità. Heidegger evidenzia la riconduzione della causalità, nella Seconda analogia dell’esperienza (AA III, p.166-179), alla permanenza dell’agente, leggendola come riduzione della temporalità alla semplice presenza dell’esser-sottomano dell’ente. Tale inclinazione è anche impressa al concetto di libertà, nel momento in cui, dopo averla intesa come un’idea cosmologica (ovvero connessa con l’idea di mondo e non di anima), Kant, nella terza antinomia, formula il problema ontologico della libertà nei termini tradizionali di una causa che si dà nel mondo, per quanto diversa da quella naturale: “Kant costringe la costituzione d’essere propria dell’esistenza dell’uomo nella problematica dell’essere generale e ovvia della metafisica tradizionale” (p.114).

La sezione prosegue con un saggio di A. Contini su P. Ricoeur. La ripresa della terza antinomia nella sua riflessione etica avviene a partire da una teoria del soggetto che eviti i rischi del cogito inteso come immediata posizione. Affermando il primato della mediazione riflessiva (e non io), il filosofo francese cerca un’ermeneutica del sé in grado di comprendere il chi del soggetto, evitando il sospetto nietzscheano che esso segnali una mera abitudine grammaticale. La filosofia analitica sgombra il campo dalle ipoteche ontologiche, ma in essa il soggetto dell’enunciazione non è che una delle cose di cui si parla. Per cogliere l’elemento personale non è sufficiente l’ascrizione ad un chi di un enunciato ma occorre l’imputazione etico-giuridica di una responsabilità. Il ricorso ad una causalità mediante libertà che si consuma nella terza antinomia kantiana sembra dar conto di questa imputazione, in quanto conferisce al soggetto la spontaneità come capacità di dare inizio, che secondo Ricoeur può riconciliarsi con la causalità naturale tramite “un fenomeno specifico del campo pratico: l’iniziativa, vale a dire l’effetto sensibile di una causalità secondo libertà” (p.128).

Il successivo contributo di M. Failla prende le mosse dalla rilettura blochiana di Kant, che rintraccia in quest’ultimo una filosofia della speranza mediante il sublime, inteso come quell’idealità che pur squarciando la meccanica della natura non si congeda da quest’ultima verso la trascendenza ma vi resta avvinto. A partire da questo spunto l’A. mostra come fin dai primi scritti precritici Kant cerchi di “andare oltre il meccanicismo dal suo interno” (p.133). Criticando il concetto di Dio come causa sui, Kant intende affermare l’esistenza di un piano soprasensibile irriducibile ai rapporti di causa-effetto propri del mondo naturale, che tuttavia non contraddice, lasciando uno spazio per il libero arbitrio. È su questa stessa strategia che torna Kant nella terza antinomia, dimostrando l’impossibilità di negare una forma di causalità (mediante libertà) diversa da quella naturale. Lo spazio ontologico per la causalità libera è dunque lo spazio de-oggettivato della morale, intesa come agire indipendente dall’esperienza sensibile (libertà negativa) ma comunque in grado, mediante volontà, di rendersi effettivo (libertà positiva). Questa perdita di mondo può essere infine superata mediante il riferimento kantiano alla comunità ideale del regno dei fini, presupposto della sua concreta realizzazione civile.

La terza e ultima sezione del volume indica, mediante il ricorso a rilevanti interpretazioni contemporanee, possibilità teoriche di portare Kant oltre Kant. L’articolo di C. Gentili esamina l’influenza kantiana sul prospettivismo di Nietzsche. Il cuore della sua critica a Kant si situa, in buona sostanza, nell’aver compiuto soltanto a metà il cammino di superamento della metafisica. La rivoluzione copernicana ha infatti messo in crisi la fiducia moderna nella possibilità di conoscere le cose in se stesse, ma ha riportato al soggetto la fondazione di una rinnovata forma di oggettività. In particolare, nella terza critica, Nietzsche (estremizzando una riflessione che si mantiene invero nell’alveo dei giudizi riflettenti) vede il tentativo di fornire una finalità alla natura che si concili con l’esperienza estetica soggettiva di una Zweckmäßigkeit: “Il dubbio è, in altre parole, che ogni teleologia, pur se presupposta a parte subjecti al solo fine della comprensione della natura, si riveli nei fatti come una teleologia oggettiva»” (p.156). Al contrario, la realtà è caos e lotta, ovvero assenza di legalità, e la necessità di attribuirvi ordine e bellezza non è altro che un antropomorfismo. Nietzsche smaschera dunque la supposta universalità soggettiva del finalismo della terza critica come esigenza psicologica, utile alla vita; da quest’ultima egli riparte (e dunque da Kant oltre Kant), per elaborare il suo prospettivismo, che è innanzitutto parzialità del giudizio.

L’intervento di R. M. Calcaterra si propone di mettere in luce l’influenza di Kant sul pensiero di Pierce. Il filosofo muove da una riformulazione della logica kantiana, riducendo le categorie a Qualità, Relazione e Rappresentazione e trasferendole dal piano del soggetto trascendentale a quello dell’analisi logico-proposizionale. Superando la distinzione sensibilità-intelletto, Pierce pensa i processi cognitivi come continuum di fattori empirici e mentali, imperniati sulla nozione di rappresentazione interpretante. La conoscenza è pragmatica e non dogmatica, ovvero il soggetto è già da sempre inserito in una semiosi, cui contribuiscono gli altri soggetti, e in un rapporto con la natura. La logica non riguarda categorie astratte ma norme e credenze, frutto di un processo evolutivo in cui le nostre capacità mentali costantemente s’intersecano con le disposizioni naturali. Come Kant, Peirce ritiene la razionalità il carattere specifico dell’uomo, ma essa non si attesta ad un livello trascendentale bensì è intesa come la pratica di un’interazione tra mente e mondo.

Infine, il contributo conclusivo, firmato da S. Marino, si occupa di Th. W. Adorno come interprete di Kant. L’A. si indirizza alle rispettive concezioni della dialettica. Il pensiero kantiano, come espressione di un’esigenza critica, di una frattura nella stessa totalità, introduce perciò stesso un “momento della non-identità” nella filosofia dell’identità, che Adorno rintraccia in due snodi. Da un lato, nella Dialettica trascendentale, nell’insolubilità delle antinomie, di contro alla pretesa hegeliana che la dialettica giunga all’intero. Questo “blocco kantiano” all’umana possibilità di guadagnare il senso metafisico si collega all’altrettanto kantiano riconoscimento che quella ricerca costituisce un’inestirpabile bisogno della ragione. Adorno sarebbe dunque fedele a Kant sia nel limite critico ad una metafisica definitiva sia nel salvare la sua inconclusa ricerca, come trascendenza utopica. Al contrario di Kant, però, egli sottolinea (come Hegel) la contraddizione del reale, l’impossibilità di un’unica validità della conoscenza e l’impraticabilità di una “metafisica della libertà”. Semmai, nel tardo Adorno è ravvisabile un residuo metafisico come apertura all’utopia a partire dalla fragilità umana, ovvero come “trascendenza tutta immanente” (p.194). Essa trova un approdo pratico nell’arte, ostacolo alla integrale razionalizzazione del reale. In essa si trova il secondo snodo kantiano della frattura, a partire dalla sua formulazione della dialettica come logica della parvenza (Logik des Scheins).

Il pregio della raccolta è dato soprattutto dal mostrare, anche focalizzando un tema specifico, la capacità della lezione kantiana di animare il pensiero contemporaneo con problemi ancora aperti.

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