Siamo lieti di pubblicare la recensione di Alessia Giacone al testo L’Abîmement instaurateur dans la Logique de Hegel di Gwendoline Jarczyk, edito da Kymé nel 2013. La recensione è uscita nella rivista online Universa. Recensioni di Filosofia, coordinata da giovani ricercatori padovani.
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Gwendoline Jarczyk, L’Abîmement instaurateur dans la Logique de Hegel, Kimé, 2013, pp. 233, € 23.00, ISBN 9782841746378
Coautrice della traduzione francese della Scienza della logica (assieme a Pierre-Jean Labarrière) e di numerose monografie sul pensiero di Hegel, Gwendoline Jarczyk dedica questo suo ultimo volume al concetto di negativo hegelianamente inteso da un’angolatura tutta nuova. Giocando il titolo su una contraddizione voluta, l’A. spiega all’inizio dell’opera (p.10) che abîmement traduce il tedesco Versunkenheit, termine che appare una sola volta nella Prefazione della Fenomenologia dello Spirito; ma in coerenza con il verbo s’abîmer, untergehen, rende nella versione francese anche l’espressione Untergang. Abîmement ha una connotazione estremamente materiale, sensibile: indica il deterioramento, l’appassire progressivo di tutte le cose, ma anche uno stato di deplorazione morale; nella traduzione italiana a cura di Enrico De Negri, Versunkenheit è reso con “abbrutimento”, ed è detto dell’affaccendarsi del genere umano nel sensibile (Fenomenologia dello Spirito, p.5). Ancora, abîme significa, in francese, anche “abisso”, “baratro”, e Jarczyk utilizza abîme soprattutto come equivalente del tedesco Abgrund. Con una simile trama di rimandi linguistici, la paradossalità – affatto voluta – del titolo apre le porte all’ampiezza delle tematiche trattate nel testo che ci accingiamo ad analizzare, il cui scopo è proprio di indagare a fondo quel senso duplice, negativo e positivo o, meglio, positivo nel negativo, della concretezza del tessuto logico nell’atto stesso del suo farsi. Il volume è diviso in due parti, L’abîme vide de l’absolu e La création en abîme, ciascuna organizzata in tre capitoli. Ne L’abîme vide de l’absolu, l’A. analizza dapprima (capitolo primo) il carattere formale della Scienza della logica, in cui il fatto di enunciare la necessità interiore dell’oggetto non è che il profondarsi, attraverso figure sempre più determinate e perciò ricche di contenuto, del carattere scientifico. All’intemporalità che spetta alla logica in quanto scienza formale tout court compete di diritto la capacità di camminare retrospettivamente, di dimostrare così se stessa e il proprio statuto necessario in una strada che dall’immediato conduce al risultato, risultato che, però, non manca di svelarsi infine come origine, fondamento, verità. Una perenne riscoperta, insomma, di un tempo perduto, un tempo al di là del tempo che, in un costante gioco dialettico tra oblio e reminiscenza, consente di rendere in certo modo presente, nell’articolarsi della scrittura logica, un passato che non è mai stato davvero tale. Nell’andare avanti come tornare indietro promesso nelle prime pagine della Scienza della logica, quell’esser stato che è il fondamento è, come oblio, promessa di compimento e anelito all’avanzamento del processo logico (p.29 e sgg.), ma anche, come ricordo, accesso alla profondità di ciò che è (pp.24-27): “[c]he cos’è allora questo cominciamento che non è tale che in ragione di un non ancora, quando tuttavia questo non ancora è così vicino a un di già?” (p.29). L’oscillazione iperbolica, paradossale, tra il nulla di ciò che deve ancora venire e il nulla di ciò che è già stato e proprio per questo non è più e va perciò recuperato, ricordato, è la scaturigine affatto originale della potenza creatrice, o per meglio dire autocreatrice, della logica hegeliana. Laddove il ricordare si costituisce non come mera ripresa di ciò che è dileguato e di cui la scrittura logica si è già fatta testimone, ma, in quanto risultato, ha un contenuto nuovo, diverso, mai scontato. Al punto che “[l]a triade che formano il sapere, l’oblio e il ricordo costituirebbe in questo senso il passaggio di qualsiasi formalismo alla conoscenza concettuale” (p.179). Tale problema guadagna spessore nell’analisi della negazione come determinazione (capitolo secondo). Determinazione negazione che è al cuore del processo logico, e che si configura come “pietra di paragone” della sua concretezza (p.54 e sgg.), dal momento che medesimo contenuto sono il pensiero nelle sue determinazioni immanenti e la natura delle cose; ed è in seno a quest’unione che la determinazione si svela “come il contenuto di cui si riempie il concetto a favore del suo processo di autodeterminazione” (p.75). Forte di questa necessaria digressione, il capitolo terzo può iniziare a chiarire il senso doppio, positivo e negativo, dell’abîmement logique: “il negativo, in quanto ha valore di risultato, piuttosto che precipitare il processo in un baratro vuoto, ha il potere di rilanciarlo a partire dalla positività della determinazione così divenuta – il contenuto” (p.77), non essendo altro, questo baratro vuoto, che “la profondità senza fondo dove tutti i contenuti e tutte le sostanze sono spariti” (ibid.). L’espressione l’abîme vide de l’absolu, che traduce il tedesco der leere Abgrund des Absoluten, appare in contesti assai diversi nella Fenomenologia dello Spirito, dapprima nella Prefazione come “abisso della vacuità” (Fenomenologia dello Spirito, cit., p.9) e poi nella sezione dedicata al Sapere assoluto, come abisso entro cui il sapere “contempla come il distinto si muove in lui stesso e ritorna nella sua unità” (ivi, p.494). La doppia connotazione, tanto negativa quanto positiva e, anzi, positiva nel negativo, dell’abîmement, lo rende, secondo l’A., “una delle espressioni più significative della negatività” (p.85). Ora, poiché questa verità negativa in senso eminente che è l’abîme logique, così come si è delineata nella prima parte dell’opera, non è che “movimento instauratore che ha per archetipo o per schema prefiguratore […] il rapporto tra sorgere e dileguare” (p.125) – dove il dileguare, il perire, significa sempre un risolversi in qualcosa d’altro – si tratta adesso di verificare in che modo il gioco dialettico tessa il suo ricamo creatore ad un ritmo incalzante, serrato e al tempo stesso necessario, nel portare alla luce figure di sempre maggiore determinazione all’interno della Scienza della logica. L’A. ne svolge una lucida analisi nel primo capitolo della seconda parte del volume – intitolata, come si ricordava sopra, La création en abîme –, ripercorrendo i momenti chiave in cui questo diviene chiaro nelle tre dottrine e dedicando particolare attenzione alla Dottrina dell’essenza (p.141 e sgg.), in un’analisi che trova prosieguo anche nel capitolo centrale di questa seconda parte, dedicato al fondamento come – finalmente – abîme instaurateur della logica hegeliana e vero vertice speculativo dell’intero volume. Giunta a questo punto dell’indagine, partendo dalla celebre affermazione ad apertura della Scienza della logica che rivela come ogni andare innanzi non sia, appunto, che un ritornare al fondamento, all’originario e al vero, Jarczyk riflette soprattutto sul passaggio dell’essere nell’essenza; quanto a quest’ultima, nel suo farsi essa stessa, a un certo punto, fondamento, risulterebbe legittimata nel suo statuto di termine centrale, imprescindibile, tra essere e concetto. Qui risiede, per dirla con le parole dell’A., “il segreto, se così si può dire, del fondamento in cui si adunano tutte le cose come strutturalmente contraddittorie, garantendo, nella soluzione delle loro contraddizioni, di essere portatrici esse stesse delle loro determinazioni. Non dunque un luogo [scil. il fondamento], ma piuttosto una scrittura – la scrittura della loro autoposizione” (p.172). Apice in cui convergono positivo e negativo, l’abîmement logique è in definitiva libertà, “espressione adeguata del pensiero” (capitolo terzo) che, proprio in quanto speculativo, può tenersi saldo nella contraddizione. Il volume, che costituisce un valido strumento per lasciarsi condurre nei dedali ostici – per non dire impervi – della Scienza della logica, unisce la precisione di una studiosa hegeliana di vecchia data (e con molte monografie sulla medesima linea di ricerca alle spalle: si segnalano, tra tutti, i volumi del 1999 e del 2004, di cui quest’ultimo testo sembra essere prosieguo ideale) a un entusiasmo vivace che prova a trasformare gli spigoli e le acredini del pensiero di Hegel in temi ricchi di suggestione e fascino, spesse volte riuscendoci. Ci si sarebbe potuti aspettare, proprio in virtù del sopramenzionato rigore, un confronto un po’ più marcato con la letteratura critica già esistente e con il dibattito contemporaneo. Si tratta tuttavia di una piccola mancanza rispetto all’accuratezza dell’opera, all’originalità dell’angolatura con cui vi viene trattato il tema del negativo (con particolare riferimento, cioè, a ricordo e oblio), nonché, altro aspetto di pregio, all’agilità delle dimensioni dell’opera stessa.
Alessia Giacone, Università degli Studi di Padova