Proponiamo la recensione del testo di Armando De Palma e di Germana Pareti, La fisiologia in Germania tra materialismo e vitalismo (1848-1935), scritta da Andrea Angelini e apparsa sull’ultimo numero di Universa. Recensioni di filosofia. Il testo PDF della recensione è disponibile qui.
Armando De Palma, Germana Pareti, Vita. La fisiologia in Germania tra materialismo e vitalismo (1848-1935), Edizioni ETS, 2014, pp. 154, € 15.00, ISBN 9788846738523
Andrea Angelini, Università degli Studi di Padova
Il problema della vita attraversa uno spazio sempre più vasto nella recente riflessione filosofica. Gli sviluppi del concetto di biopolitica, le domande della bioetica, la questione del corpo e del rapporto tecnica-vita, fino alle ripercussioni di questi temi nel più ampio spettro della questione ecologica, sono prova della rilevanza di un intreccio ormai inscindibile tra filosofia e biologia. Il volume di A. De Palma e G. Pareti affronta un contesto poco battuto della disputa sulla nozione di vita, nonostante la sua influenza in Europa e negli Stati Uniti, ovvero la fisiologia tedesca a cavallo tra XIX e inizio del XX secolo.
Le difficoltà del Kant della terza Critica nel sostenere l’insufficienza di una visione meccanicista per indagare l’organismo vivente, senza riuscire a proporre un metodo alternativo a quello della fisica classica (cfr. L. Illetterati, Biologia, in S. Besoli, C. La Rocca, R. Martinelli, L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere, Quodlibet, Macerata, 2011, pp.53-96), hanno aperto una discussione che non ha cessato di interrogarci, e che si ritrova al centro del confronto tra i diversi orientamenti della fisiologia tedesca (p.9). L’obiettivo polemico dell’indirizzo fisicalista è il vitalismo inteso come affermazione di un principio vitale estrinseco rispetto alla materia – come nel caso paradigmatico della Lebenskraft di G. Stahl –, ritenuto una consunta e retrograda metafisica. Le sue riapparizioni sono frequenti lungo l’Ottocento, a causa del persistere di un limite d’intelligibilità dei fenomeni vitali all’interno delle maglie categoriali della fisica e della chimica del tempo. Tuttavia il vitalismo è spesso incapace di spiegare questa differenza di là dalla sua semplice enunciazione – “Noi denominiamo questa regione che ci è ignota con la parola vita” affermava M. Schleiden (p.12). Questo motiva le riserve di molti scienziati come H. Lotze, J. von Liebig, E. du Bois-Reymond, R. Heidenhain, E. Pflüger, J. Bernstein, L. Hermann, C. Ludwig, C. G. Lehmann, W. Pfeffer fino a R. Höber. Il “credo fisicalista” non intendeva negare la differenza del fenomeno vitale, ma rifiutava di pensarlo indipendente dalla legalità fisico-chimica, appartenente a un ordine di eventi autonomo, anche in virtù di riscontri sperimentali che autorizzavano a diffidare di un simile dualismo tra materia organica e inorganica, materia e forza, processi interni ed esterni all’organismo.
Il secondo e il terzo capitolo evidenziano come, attorno al 1870, quello di du Bois-Reymond fosse ormai un pensiero egemone, che vedeva la fisiologia in procinto di essere “completamente assorbita nella grande unità delle scienze teoriche della natura” (p.30). Un’unità ben diversa da quella radicata nel terreno comune dell’esperienza intersoggettiva che auspicherà l’Husserl della Krisis, essendo intesa dagli scienziati positivisti sotto l’egida dell’obiettivismo fisicalista. I capitoli successivi (quarto, quinto e sesto) attestano come la vita fosse definita da questi scienziati alternativamente come un fenomeno termico, un processo di ossidazione, un meccanismo di osmosi (secrezione, assorbimento, diffusione, filtrazione) o di conversione energetica. Tutto converge verso l’analogia tra il funzionamento dell’organismo e quello di una macchina, come appare nel legame tra conoscenza fisiologica e riproduzione tecnica delle funzioni vitali attraverso modelli meccanici di tessuti, nervi, muscoli.
Posizioni più moderate, presentate nel settimo capitolo, erano quelle di J. Müller, ma anche Lotze restava più vicino al problema kantiano dei limiti di pertinenza del sapere empirico, cercando “di collocarsi tra Scilla e Cariddi, tra ʽquesta meccanicaʼ improntata ai principi di Newton e una fisiologia filosofica, che non abrogasse la dimensione spirituale della vita” (p.63). Tentativo di trovare una terza via seguito anche da W. Biedermann e da T. Schwann, uno dei padri della teoria cellulare, all’interno della quale si riafferma lo spazio per posizioni vitaliste che rianimano le polemiche dei fisicalisti come H. J. Boruttau e M. Cremer. Il dibattito torna continuamente sul punto di non poter identificare la non
sovrapponibilità dei fenomeni fisici e di quelli fisiologici con la loro estraneità, con una differenza di natura che risolverebbe a parole ciò che questa scienza pretendeva comprendere sul piano empirico. Anche per capire i limiti di una spiegazione fisicochimica era necessario comprendere dove esattamente questo approccio si rivelasse impotente e inadatto a interpretare questi processi e per quali motivi, senza supporre l’indipendenza del fenomeno vitale da un correlato fisico o chimico.
Tuttavia, come mostrano gli ultimi quattro capitoli, venne il tempo di rinunciare all’idea di una continuità semplice, pur escludendo un dualismo forte che non consideri gli elementi di implicazione, dipendenza e sconfinamento incerto tra processi organici e inorganici. Lo stesso Cremer doveva ammettere di non poter ricondurre i processi elettrofisiologici “a una legge nota della fisica, della chimica o anche della chimica fisica nella loro forma odierna” (p.80). Il problema è che i processi della cellula non hanno il carattere di una semplice consequenzialità meccanica, esprimendo rispetto a essa delle capacità attive che impediscono di equiparare i processi fisiologici del corpo vivente a quelli meccanici (pp.85-87). Come scrive Heidenhain: “le forze motrici sono vincolate allo stato vivente delle cellule”, ma non per questo occorre “soccombere di nuovo al misticismo vitalistico” (p.90) attribuito a G. von Bunge. E se M. Verworn arriva a descrivere questa imprevedibilità dell’attività cellulare come una “capacità di scelta”, C. E. Overton precisava che la complessità di questi processi, la loro irriducibilità alla scomposizione analitica, non concede tuttavia “la benché minima ragione per la supposizione che le leggi vigenti negli accadimenti fisici degli esseri viventi deroghino anche soltanto di uno iota dalle leggi della natura inorganica” (p.91). Ancora una volta il dualismo che per i neo-vitalisti costituiva la soluzione nuovamente disponibile e necessaria, per questi ricercatori rappresentava il problema stesso, un enigma stimolante e non inaccessibile all’osservazione empirica. Quest’ultima proseguirà con gli studi di biochimica sulla sintesi organica e la nuova elettrofisiologia successiva alla rivoluzione ionistica in chimica fisica del 1902, guidata da W. Ostwald e altri (pp.98-99). Tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento, parallelamente alla svolta quantistica della fisica, gli studi biochimici sui fermenti colloidali trasformano rapidamente il panorama della fisiologia, facendone vacillare le basi meccaniciste ma non quelle riduzioniste.
L’insieme di queste ricerche ha prodotto risultati che andavano ben oltre la prima fase del fisicalismo, e molto importanti per la biologia del XX secolo, così riassunti da Höber: “1) la struttura complicata delle cellule e, più in generale, il tema della complessità del vivente; 2) la dipendenza dei processi vitali dalle funzioni, ovvero dalle circostanze mutevoli alle quali l’organismo deve rispondere secondo svariate modalità […]; 3) la differente selettività che caratterizza la permeabilità della membrana a seconda dei diversi stati funzionali; 4) la capacità di autoregolazione che la cellula è in grado di espletare […]; 5) la distinzione tra comportamento passivo e attivo delle cellule. Ovvero tra la permeabilità fisica e quella fisiologica […]; 6) l’equilibrio dinamico come caratteristica del processo vitale” (pp.106-107).
L’ultimo capitolo declina il problema del dualismo vitalista in quello tra res extensa e res cogitans, proponendo un salto nella neurofisiologia e dal concetto di vita a quello di coscienza (non a caso i due autori hanno curato la celebre antologia Mente e corpo. Dai dilemmi della filosofia alle ipotesi delle neuroscienze, Bollati Boringheri, Torino, 2004). Anche in questo caso, come sostiene du Bois-Reymond, non possiamo scindere il processo dal substrato, ma niente permette di intendere il cervello come la causa del pensiero. Sebbene la teoria delle localizzazioni cerebrali nasca in questo periodo, per du Bois-Reymond come per J. Tyndall: “Il passaggio dalla fisica del cervello ai corrispondenti fatti della coscienza non è concepibile. Ammesso che un pensiero particolare e un’azione molecolare particolare nel cervello si verifichino simultaneamente, non possediamo l’organo intellettivo, né a quanto pare un rudimento di quest’organo, che ci metta in grado di passare dall’uno all’altro con un processo di ragionamento. Si presentano insieme ma non sappiamo perché” (p.119). La posizione di chi come C. Vogt, rifiutando la plausibilità di un’anima indipendente, paragonava il cervello al fegato e ai reni per la comune funzione di secrezione, suscitava le reazioni sprezzanti di Lotze – che ribatteva giudicando questa una banale ”idea non filtrata” (p.121) – e di molti altri partecipanti a quello che du Bois-Reymond definì “una sorta di torneo per l’anima” (p.121). Il noto fisiologo (di recente tratteggiato nella monografia di G. Finkelstein, Emil du Bois-Reymond. Neuroscience, Self and Society in Ninetheenth-Century Germany, MIT Press, Cambridge, 2013), rifacendosi nuovamente a Kant e contravvenendo a sue precedenti posizioni, riteneva che questo torneo non fosse disputabile sul piano della scienza fisiologica. Si tratta di un “nuovo dualismo”, seguito anche da Bernstein e Höber, che distingueva “da un lato le condizioni della vita mentale, della sensazione e della coscienza, sottoposte al regime della causalità e, dall’altro lato, la vita mentale stessa, la coscienza, intrinsecamente incomprensibile, causalmente inefficace” (p.126). Un nuovo dualismo che rifiutava d’identificarsi con un’assunzione ontologica materialista (p.125), e che per W. von Nägeli riconsegnava la coscienza all’ignorabimus sempre scomodo per l’abito scientifico, ma che appariva l’unico modo di evitare la riduzione del vivente a un automa meccanico.
Questo libro aiuta ad apprezzare non solo i limiti, ma anche la proficua tenacia della prospettiva fisicalista. La parabola della physikalische Schule si chiude tra le due guerre mondiali con il fallimento della spiegazione meccanicista dei processi viventi, ma non del principio d’implicazione tra organico e inorganico, lasciando in eredità il problema di indagare la vita come vita materiale (körperliche Leben), e di considerare “le condizioni che rendono possibili i fenomeni vitali” (p.112). Queste posizioni influenzeranno la successiva fisiologia d’impronta olistica (p.125) e il suo tentativo di affrancarsi dal meccanicismo senza ripresentare un vitalismo dualista. Inoltre, in autori come K. Goldstein o V. von Weizsäcker, la biologia rifiuterà il riduzionismo fisicalista recuperando un dialogo critico con la Naturphilosophie post-kantiana – del tutto screditata dagli autori trattati in questo volume (pp.61-63 e 84) – e legandosi a una riflessione speculativa lontana dalla pretesa neutralità dello sguardo positivista. Più che un dominio ontologico proprio, per la biologia del Novecento sarà necessario rivendicare un’autonomia metodologica e un campo di oggetti e problemi dallo statuto epistemologico diverso da quelli della fisica (cfr. il classico E. Mayr, What makes biology unique? Considerations on the autonomy of a scientific discipline, Cambridge University Press, 2004; tr. it. L’unicità della biologia. Sull’autonomia di una disciplina scientifica, Cortina, Milano, 2005).
Mediante il racconto dell’ascesa e del declino della fisiologia fisicalista, il libro offre lo spaccato di un confronto scientifico molto sfaccettato, approfondendo l’analisi nel merito di ricerche empiriche che non possono essere tralasciate dalla storia concettuale. Il campo ristretto dell’indagine potrebbe apparire un limite di questo lavoro, ma è al tempo stesso un punto di forza. Pregio del volume è, infatti, quello di seguire gli sviluppi del problema della vita in un ambito disciplinare circoscritto, offrendo un resoconto dettagliato e rigorosamente documentato