Nel 2013 è stato pubblicato per i tipi di Yale University Press l’ultimo libro di Arthur C. Danto: What Art Is. In questo lavoro, che è dunque uscito pochi mesi prima della scomparsa del filosofo statunitense, egli riprende alcune delle idee fondamentali che hanno caratterizzato il suo percorso di pensiero nell’ambito della filosofia dell’arte, affinandole ulteriormente e apportando ad esse alcune innovazioni teoriche.
Proponiamo qui la recensione al libro di Danto, scritta da Francesco Campana e apparsa nell’ultimo numero di Universa. Recensioni di filosofia.
Arthur C. Danto, What Art Is, Yale University Press, 2013, pp. 174, $ 24.00, ISBN 9780300174878
What Art Is è l’ultimo libro dato alle stampe da Arthur C. Danto alcuni mesi prima di venire a mancare alla fine dello scorso ottobre.
Il testo si presenta come una rilettura e, in certi momenti, anche un avanzamento rispetto alla filosofia dell’arte dantiana. L’A., infatti, riprende alcuni dei temi centrali della propria ricerca, arricchendoli con una serie ulteriore di riflessioni oppure indagandoli sotto nuovi punti di vista. In questo senso, la forma affermativa della sintassi del titolo non è da leggersi in modo inequivocabilmente assertorio. Dietro alle risposte che emergono nel testo circa la definizione dell’arte, si percepisce il continuo interrogarsi di un percorso speculativo che sembra volersi mettere costantemente alla prova.
Il volume consta di sei saggi che, per la maggior parte, offrono in forma rielaborata e organica recenti contributi che il filosofo ha presentato in diverse occasioni pubbliche.
Nella breve prefazione l’A. sintetizza i principi che adotterà nel corso del libro e viene tracciato un complessivo quadro storico-artistico che, come in altri luoghi del volume, è necessario e funzionale all’analisi teorica. La discussione prende le mosse dalla ricognizione della posizione platonica e dello statuto dell’arte come imitazione e mera apparenza; in Platone si ravvisa l’emergere di un conflitto tra arte e filosofia che si è protratto nei secoli. In seguito, dal ‘700 e con l’istituzione dell’estetica come disciplina, l’interrogazione su cosa sia arte ha preso sempre più piede, focalizzandosi su concetti quali il bello, il gusto e il piacere. Tuttavia, in particolare col movimento modernista, tali tematiche e soprattutto la prassi imitativa non sembrano più identificarsi col concetto di arte in generale; emergono cioè forme artistiche che possono fare a meno di tali caratteri, rimanendo arte. L’intento dell’A., però, è – ed è stato negli anni – quello di individuare una definizione che possa valere per ogni opera e, benché i rivolgimenti novecenteschi abbiano portato a un estremo pluralismo del linguaggio artistico, la sua convinzione è che quello di arte non sia un concetto aperto, bensì debba contenere una serie di caratteristiche e condizioni che possano essere rinvenute universalmente nel corso di tutta la storia dell’arte, in ogni luogo e in ogni tempo.
Il primo capitolo, Wakeful Dreams, l’unico a non aver mai visto la luce in forma di conferenza, è il più consistente e forse il più interessante dal punto di vista dello sviluppo generale del pensiero dell’A. In questo contributo, infatti, viene riproposto l’esame dei mutamenti artistici che hanno coinvolto il XX secolo e che più volte l’A. ha esposto nei suoi libri. Sul finale, tuttavia, il filosofo – alla soglia dei novant’anni – aggiunge un nuovo e interessante elemento alla sua ormai consolidata definizione di che cos’è arte.
Il capitolo inizia con la disamina degli elementi che hanno prodotto la rivoluzione nelle arti visive sul finire del XIX secolo e nella prima parte del XX: si analizza la crisi dell’arte basata sull’“Alberti’s criterion”, ovvero sul tentativo di ridurre la differenza visiva tra l’opera d’arte figurativa e ciò che essa rappresenta, tra imitazione e realtà imitata; vengono presi in considerazione gli avanzamenti tecnologici di fotografia e cinema e i sommovimenti interni all’arte, a partire dai Fauves e dal cubismo; vengono esaminati la pittura astratta, nelle sue diverse forme, e l’affermarsi del modernismo.
Con gli anni Sessanta e Settanta, prosegue poi l’A., un grande stravolgimento è stato l’abbandono generale dei tradizionali materiali artistici, in favore di ogni tipo di materia ma, soprattutto, di oggetti che appartengono alla vita quotidiana. Questo ha portato la realtà direttamente nell’arte e ha fatto sorgere una domanda centrale nella filosofia dell’arte contemporanea, vale a dire come distinguere tra arte e oggetti reali che arte non sono, ma che potrebbero essere usati come opere d’arte.
L’A., quindi, perviene alla trattazione dei due artisti che secondo lui hanno dato il maggior impulso alla trasformazione dell’arte così come si presenta nella contemporaneità e che hanno sempre costituito due punti di riferimento del suo pensiero: Marcel Duchamp e Andy Warhol. Entrambi hanno rimosso dal concetto di arte i caratteri che si pensava appartenessero indiscutibilmente alla sua definizione e hanno permesso all’A. di pervenire alla definizione di arte elaborata soprattutto a partire dal suo capolavoro, La trasfigurazione del banale del 1981. La definizione dantiana, così come si è consolidata negli anni, mirava a inquadrare una posizione non istituzionalista (andando oltre l’impostazione di G. Dikie) ed essenzialista (a differenza della concezione di M. Weitz). L’A. aveva identificato due condizioni necessarie per definire l’arte: un’opera d’arte (1) deve riguardare qualcosa, essere a-proposito-di (il concetto di “aboutness”) e, conseguentemente, (2) deve veicolare un significato. Dal momento che i significati in generale sono qualcosa di immateriale, essi dovevano essere concepiti come incarnati nell’oggetto. Di qui, la definizione di opera d’arte come “significato incorporato” (embodied meaning). Benché conscio della necessità di una maggiore quantità di condizioni per definire esaustivamente un’opera d’arte, tale limitatezza aveva consentito alla definizione di raggiungere un grado elevato di universalità.
Tale definizione scaturiva dalla difficoltà, che l’arte del secondo ‘900 ha posto in primo piano, nel trovare delle differenze a livello percettivo tra arte e oggetti del mondo comune (Brillo Box di Warhol è l’esempio centrale). Sul finire del capitolo l’A. propone un parallelismo tra questo tipo di indiscernibilità e quella che a volte si può avere nel distinguere il sogno dalla realtà. L’A. decide allora di arricchire la sua definizione con un’altra condizione. L’opera d’arte dev’essere “come un sogno” (dreamlike): tutti sognano, ovvero sperimentano quella situazione in cui oggetti che appartengono al reale si manifestano come apparenze; tuttavia, la fruizione dell’arte impone che l’esperienza sia vissuta nella veglia, venendo così condivisa dagli altri. Un nuovo elemento emerge nella definizione dantiana: le opere d’arte sono “sogni vigili”, “sogni a occhi aperti” (wakeful dreams).
Il secondo capitolo, Restoration and Meaning, propone una discussione sul restauro dell’opera d’arte da un punto di vista filosofico. In questo saggio l’A. prende in esame gli affreschi michelangioleschi della Cappella Sistina e l’intervento di manutenzione a cui furono sottoposti nel 1994, che provocò polemiche e controversie, soprattutto per gli inaspettati colori che fece emergere dalla patina del tempo. L’A. si domanda se tale recupero abbia mutato il significato dell’opera, ne abbia restituito realmente l’espressione originale e se il rischio di una tale operazione sia stato giustificato. Il percorso che lo condurrà a sostenere il valore positivo del restauro si discosta dalle ragioni del responsabile dei lavori, G. Colalucci. Quest’ultimo aveva considerato la volta come un oggetto fisico e aveva escluso, nel suo rapportarsi ad essa, qualsiasi tipo di apporto interpretativo, intendendo così pervenire a una supposta oggettività che potesse riconsegnare la vera natura dell’opera di Michelangelo. Per l’A., invece, è proprio l’interpretazione critica che di tale opera si produce, l’interpretazione di un oggetto materiale e del significato che esso porta in sé, l’interpretazione di un embodied meaning, che consente di ottenere dei parametri per il lavoro di recupero.
The Body in Philosophy and Art, terzo capitolo del libro, presenta un’analisi che, ripercorrendo i rapporti storici tra il corpo come costrutto filosofico e il corpo così come gli artisti lo hanno rappresentato, cerca di indagare le ragioni che su tale tema hanno diviso i due ambiti. La tradizione artistica, soprattutto nella rappresentazione dei misteri del cristianesimo, ha messo il corpo al centro dell’attenzione, la storia della filosofia, invece, ha assegnato al corpo, secondo l’A., una posizione secondaria. Mentre la prima ha espresso i significati che attraverso il corpo si manifestano e che rimangono attuali in ogni tempo, la filosofia, basandosi soprattutto sul modello esplicativo della macchina, ha spiegato come questi significati siano possibili, ma è sempre stata vincolata a un continuo aggiornamento delle proprie concezioni.
Il quarto capitolo si intitola The End of the Contest. The Paragone Between Painting and Photography. Il rapporto tra pittura e fotografia e la lunga pretesa di superiorità della prima (il “paragone”, appunto, in senso rinascimentale) è un confronto del tutto particolare. Viene inizialmente riletto il cammino che la fotografia ha dovuto attraversare prima di acquisire lo status di arte. In seguito, l’A. affronta la complicata relazione (“zigzag path”, p. 112) tra le due arti, una relazione giocata sulle differenze tra verità ottica (optical truth), prodotta dalla macchina, e verità percepita comunemente dall’occhio umano (visual truth). Viene infine discusso il contributo che la fotografia ha avuto nelle trasformazioni interne all’arte figurativa.
Nel quinto capitolo, Kant and the Work of Art, l’A. individua due concezioni di arte presenti nella terza critica kantiana: una concezione basata sul gusto e sul bello, che risulta oggi poco utilizzabile se applicata all’arte contemporanea; un’altra, meno sviluppata in Kant ma comunque presente, che si fonda sul concetto di “spirito” come potere creativo dell’artista e capacità innata, intimamente connessa con le facoltà cognitive. Le due concezioni hanno poco a che fare tra di loro e possono non presentarsi contemporaneamente nella stessa opera d’arte. Nella seconda concezione Kant si discosta dalla tradizione illuminista e si avvicina a Hegel e anche al romanticismo. Questa seconda concezione sembra abbracciare meglio gli sviluppi contemporanei dell’arte e, quindi, anche una dimensione universale che possa coinvolgere tutti i periodi storici, i luoghi e le culture. Peraltro, nella seconda descrizione kantiana del concetto di arte, l’A. trova un’affinità con la propria definizione di opera come embodied meaning.
L’ultimo capitolo, The Future of Aesthetics, è dedicato allo studio dei motivi che hanno portato alla svalutazione dell’estetica, intesa come studio della percezione e delle ragioni dell’apprezzamento degli oggetti. In questo saggio l’A. opera una rivalutazione di tale disciplina nel contesto dello studio dell’arte. Vengono esaminate le novità e sottolineati i riposizionamenti che hanno riguardato, nel XX secolo, la configurazione del sapere accademico e viene ripreso il percorso filosofico compiuto dall’A. in relazione al problema della definizione dell’arte. Nell’analisi dantiana di Duchamp e Warhol, la dimensione estetica non gioca un ruolo essenziale per definire cosa sia arte. Tuttavia, pur non essendo una condizione necessaria per l’ontologia dell’arte in sé, tale dimensione è molto presente nella storia dell’arte e, anzi, è uno degli elementi più importanti nella conoscenza che di essa si può fare.
Nello stile proprio dell’A., quello del teorico che è stato per venticinque anni attivo anche come critico d’arte per The Nation, il volume accosta, in una ricca esposizione, discussioni filosofiche, analisi di concrete opere d’arte, ricordi personali della vita professionale e degli avvenimenti storici. What Art Is consente così di avere una panoramica generale su buona parte della filosofia dell’arte dantiana e, allo stesso tempo, offre una serie di recenti aggiornamenti di particolare interesse. Il concetto di wakeful dream è uno di questi e l’A. ammette esplicitamente di aver solo da poco cominciato a rifletterci (p. 49). Da esempi come questo, si percepisce che quello che Danto consegna è un pensiero di grande vitalità e di forte attualità, che sarà in grado di occupare ancora per lungo tempo una posizione centrale nel dibattito contemporaneo.
Francesco Campana, Università degli Studi di Padova
Il PDF della recensione può essere scaricato qui.
Segnaliamo qui alcuni articoli usciti in ricordo di Arthur C. Danto, raccolti da Labont.
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